9.0
- Band: PANOPTICON
- Durata: 00:51:29
- Disponibile dal: 12/06/2012
- Etichetta:
- Pagan Flames Records
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Si esce stanchi e neri dalle miniere di carbone del Kentucky: neri di rabbia, neri come il blues degli schiavi, neri come lo spirito del black metal, neri come il cuore di una Terra malata che urla ogni giorno il proprio dolore. Nasce da questo buio intenso il quarto full-length di Austin Lunn, artista poliedrico conosciuto sotto il moniker Panopticon che, ben undici anni fa, pubblica probabilmente il suo miglior lavoro sino ad oggi. “Kentucky” è un concept album che denuncia il mostro del capitalismo, un triste spaccato sulle condizioni di vita miserevoli degli operai che lavoravano nelle miniere di carbone. Il periodo temporale al quale fa riferimento l’artista è quello degli anni Trenta, durante la Grande Depressione, una crisi economica che scosse il mondo ma che non servì a migliorare le condizioni dei lavoratori, né tanto meno ad escogitare una valida alternativa energetica. E così Lunn intraprende questa forma di denuncia sonora contro gli avvoltoi che sovrastano i palazzi del potere pronti a saccheggiare le viscere dei deboli, strappando loro ogni sacrosanto diritto. Una protesta che ancora oggi resta attuale, un tema sociale che nel tempo si è esteso nei campi, nelle fabbriche e nelle strade pullulanti di rider.
Una piccola curiosità: Lunn, oltre a puntare i riflettori sui diritti umani, ha molto a cuore la natura, tanto da donare parte dei profitti derivati dalla vendita dell’album ad un ente ambientalista. Ritornando a parlare di musica, i nobili temi affrontati in Kentucky si legano perfettamente alla proposta musicale dei Panopticon che, come già accaduto in precedenza (“Collapse”, 2009), riescono a fondere le morbide sonorità bluegrass e folk con quelle graffianti del black metal. Un black d’Oltreoceano che segue il filone cascadian dei Wolves In The Throne Room, degli Agalloch, che si carica di atmosfere sognanti e violente, che abbandona l’occulto concentrandosi sulla natura, sull’intimità dell’essere umano in tutte le sue sfumature. “Bernheim Forest In Spring” è l’inizio di un viaggio fra i sentieri impervi degli Appalachi, un pezzo strumentale che ci introduce nel mondo Panopticon a suon di banjo, in quel ritmo popolare americano nel quale rientrano chitarre acustiche ed un allegro violino. La spensieratezza percepita in questi primi minuti si ferma al cospetto di uno strapiombo sonoro: “Bodies Under The Falls” è il primo immenso panorama che Lunn mette davanti ai nostri occhi: un black melodico accerchiato dal canto di un flauto e, successivamente, da uno splendido assolo di chitarra. Nei dieci minuti del brano scorre un vero e proprio fiume di magnificenza guidato da un drumming crudo ed intenso, da vocalizzi abrasivi, da intermezzi melodici davvero emozionanti. In tutto ciò è bello sentire il lavoro certosino del basso che non si nasconde ma pullula ridondante tra la ferocia e la poesia della trama musicale. Con “Come All Ye Coal Miners” ritornano i ritmi del bluegrass, delle ballate: questa alternanza stilistica mantiene un certo equilibrio sonoro in un’opera che non perde mai l’intensità, che afferma la propria grandezza ascolto dopo ascolto.
Tra le abilità compositive dei Panopticon emerge sicuramente quella di saper incorporare nei brani la quiete malinconica, espressa da strumenti acustici, con la rabbia straripante e trionfante del black metal. “Black Soot And Red Blood” è l’esempio perfetto di quanto è stato appena descritto: altri dieci minuti di abbondanza emotiva dove il black scrosciante viene interrotto da pure melodie e voci fuori campo di protesta: ancora rabbia ed avvilimento che si mischiano sulla tavolozza della vita. Il suono dal sapore country di “Which Side Are You On?” nasconde al suo interno il testo scritto dalla moglie di un minatore che perse la vita negli scontri avvenuti durante lo sciopero noto come Harlan County War; un brano toccante nonostante la sua musicalità esca dall’ombra a favore di luminosi raggi di allegria. “Killing The Giants As They Sleep” è il brano più lungo di “Kentuchy”: nei suoi dodici minuti respirano i ritmi freddi ed indiavolati del black che ciclicamente vengono sedati da una calda coperta di sonorità melodiche ed atmosfere oniriche, ricamate dalla voce affusolata del flauto e dalle corde pungenti delle chitarre che compongono versi ipnotici ed intermezzi malinconici. Il testo poetico della successiva “Black Waters” (cover rivisitata della cantautrice folk Jean Ritchie) è sicuramente più intenso della musicalità che lo circonda: in un’atmosfera sognante e sfocata, l’eco di una voce racconta le tristi sorti del Kentuchy. Quella terra verde ed incontaminata viene improvvisamente deflorata dalle acque nere della distruzione, dall’arrivo del capitalismo che, attraverso false promesse, invade il silenzio, deturpa la natura e la pace dei suoi abitanti. Nella strumentale title-track germoglia nuovamente quel bluegrass che ci ha accompagnato durante tutto l’ascolto del disco, una sorta di speranza armoniosa che segna la fine di un album meraviglioso. Panopticon dà origine ad un seme sonoro dove convivono sentimenti contrastanti, dove guerra e pace si amalgamano, dove proliferano i sani principi, dove trionfa la musica. Un detto dice: “Chi semina bene, raccoglie buoni frutti”, non resta che spargere “Kentuchy” in queste aride terre che ci circondano.