8.0
- Band: PANOPTICON
- Durata: 01:14:12
- Disponibile dal: 30/07/2014
- Etichetta:
- Bindrune Recordings
- Nordvis Produktion
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Passi sulla neve. Vento gelido. La natura altera che osserva l’essere umano introdursi nel suo regno. I rumori posti all’ingresso di questo nuovo lascito di Austin Lunn e del suo progetto Panopticon descrivono perfettamente il clima emotivo che andremo a trovare in “Roads To The North”, quinto full-length di una one-man band con una visione del black metal personalissima e distaccata dal sentire comune. Questo disco, summa delle riflessioni e delle esperienze di Lunn lontano dalla sua terra natia, si raccoglie nell’intimismo e dichiara adesione assoluta alla natura e alle sue leggi, conclamando un distacco netto da tutto ciò che è artefatto, per immergersi in lande solitarie e incontaminate. Ricollegandoci al monicker del progetto, possiamo affermare che il polistrumentista statunitense si è posto al centro di un ipotetico reticolo di celle, in cui risiedono idealmente gli stilemi musicali più disparati, li ha osservati intensamente, e quindi vi ha attinto per raccontarci se stesso e il suo mondo secondo una prospettiva non replicabile. Black metal, melodic death, sinfonie, folk, ambient, uno sfoggio di strumenti inusuali come il flauto dei nativi americani, il banjo e il mandolino, concorrono e compartecipano nella creazione di una serie di pezzi lunghi e avventurosi, sferzanti e diretti, contraddistinti da tante piccole aperture, riquadri in cui ammirare qualcosa di nuovo e di inaspettato, che lascia a bocca aperta e si fa apprezzare lentamente, senza fretta. La sofferta prima traccia, “The Echo Of A Disharmonic Evensong” prevede sventagliate ariose e malinconiche vicine ai primi Dark Tranquillity, soccombendo e rilanciandosi in bozzetti sinfonici di grande tatto; da “Where The Mountains Pierce The Sky” viene introdotta la peculiare vena folcloristica di Lunn, che altro non è che una commuovente rivisitazione della musica tradizionale della provincia americana, più specificatamente di quel Kentucky, dove il mastermind risiede, a cui era dedicato l’album precedente, uno stato che per larghe fasce di territorio vive intrappolato negli stessi modi di vivere dei primi anni del ‘900. Con “The Long Road Part 1: One Last Fire”, primo capitolo di un trittico che si esaurirà nelle tracce immediatamente successive, i Panopticon regalano un ritaglio di folk danzante in un mare di elettricità, non toccando minimamente le corde del metal. In “The Long Road Part 2: Capricious Mile” il flauto indiano prende per mano e catalizza le attenzioni, muovendosi vivace fino ad annegarci fra ambient e gli Opeth più rasserenanti, portandoci al tramonto e silenziando le inquietudini. “The Long Road Part 3: The Sigh Of Summer” evidenzia con ancora più fulgore il bisogno di fermarsi, contemplare, prendersi una pausa dal fuoco interiore che muove le nostre azioni, e assorbire l’energia dell’ambiente circostante: siamo in territori shoegaze, ormai immancabile di questi tempi nelle proposte extreme metal dalle mille inquietudini e fragilità. C’è quasi il timore di rompere un incantesimo, la luce inonda anche l’inevitabile burrasca che riporta su coordinate pienamente metalliche e fa involare la traccia su uno sviluppo in cui l’energia sgorga impetuosa, ma non vi è spazio per gli usueti toni scuri del black metal. I Panopticon sono implacabili e insieme positivi, privi di odio, e la registrazione va proprio a porre l’accento su questo aspetto, mettendo in risalto le melodie orchestrate da tastiere, violino e chitarre; la scelta di suoni molto naturali è azzeccata, lascia un po’ nuda la batteria nelle parti più accese e non ha certamente uno spessore esagerato nelle ritmiche, però è adeguata al genere e non influisce più di tanto sul risultato finale. L’intermezzo cantautorale di “Norwegian Nights” funge da ottimo stacco e ci piazza su una veranda di una vecchia casa del sud degli States, al crepuscolo, quando i ricordi e i pensieri più struggenti sommergono l’individuo e non possiamo che farli uscire, sommessamente, da noi stessi per placarne gli effetti. “In Silence” sposta il baricentro verso un certo viking metal molto accorato, che sa essere sia tragico che epico. Lunn adatta il cantato alle circostanze e adotta un semi-pulito di vibrante forza espressiva, finendo infine intrappolato in qualche nuova malinconia e sciorinando una piccola ballata acustica che interrompe e allo stesso tempo innalza la potenza evocatrice del brano. Il meglio i Panopticon lo tirano fuori sulla conclusiva “Chase The Grain”, arrivando addirittura a stupire per ricchezza degli arrangiamenti e l’audacia con cui rendono inseparabili chitarre, tastiere e flauto, in nome di un cantico poetico e graffiante. Ci si supera rispetto a tutto ciò che abbiamo sentito finora, si trascende in atmosfere da kolossal cinematografico e vocalizzi angelici e diabolici si inseguono e si sommergono a vicenda, mettendo in mostra uno screaming alla Ihsahn davvero sopraffino. La travolgente progressione di toni da soundtrack, invettive black metal, inflessioni avantgarde, in una summa gigantesca di note e visioni, fa ascendere verso un reame di meraviglie e delizie, il punto d’arrivo di un disco magico e ricco, da scoprire per tutti coloro che credono in un metal estremo votato alla ricerca di nuovi linguaggi e sensazioni.