8.5
- Band: PANTERA
- Durata: 00:53:04
- Disponibile dal: 07/05/1996
- Etichetta:
- East West Records
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A prescindere da cosa si pensi, a prescindere da per quale parte ci si schieri, a prescindere dal ricordo che ognuno di noi serba di loro, a prescindere dal genere metallico che si prediliga, è innegabile che il tour della pseudo-reunion dei Pantera sia l’evento heavy metal dell’anno; o, perlomeno, fra i primi tre eventi del 2023, con gli altri due da stabilire a vostra scelta. Ci è quindi sembrato doveroso, giusto e corretto omaggiare la band texana dei compianti fratelli Abbott con un nuovo slot della nostra rubrica I Bellissimi, che ha già visto, in lontane puntate del passato, transitare sulla sua pagina “Cowboys From Hell”, “Vulgar Display Of Power” e “Far Beyond Driven”. Tralasciando la prima parte di carriera dei Nostri, quella non ancora marchiata dagli stilemi groove-thrash metal e immersa in sonorità glam, ed il più dimesso e standard “Reinventing The Steel”, epitaffio discografico del gruppo edito nel 2000, non restava dunque che infiocchettarvi sul piatto il mostruoso crotalo che campeggia minaccioso sulla copertina di “The Great Southern Trendkill”, l’ottavo-ma-quarto full-length dei Pantera. L’ultimo loro vero capolavoro, per quanto ci riguarda.
Al solo scriverli sulla tastiera, i nomi dei quattro musicisti fanno paura, tanto assieme costituivano un ensemble di rare dimensioni belliche, belligeranti e virtuose: Phil Anselmo, Dimebag Darrell, Rex Brown, Vinnie Paul; quattro anime ben definite che, una volta su palco, quando e soprattutto in condizioni fisiche tirate a lucido, spaccavano il culo senza rivali. Eppure, è proprio con “The Great Southern Trendkill” che tale terrificante alchimia iniziò a deteriorarsi, per la precisione dal 1995, quando tra Anselmo e i suoi compari iniziarono delle divergenze riguardo la gestione delle relazioni all’interno del gruppo. Dopo l’esplosione commerciale dovuta alle bombe “Cowboys…” e “Vulgar Display…” e il successo mondiale ottenuto dall’estremo “Far Beyond Driven”, devastante baluardo di violenza contro lo strapotere grunge del periodo, il belluino vocalist dei Pantera inizia a perdere un po’ la trebisonda, tra dolori lancinanti alla schiena, abuso di alcol, esuberanze varie on-stage, denunce e – abisso che marcherà un limite invalicabile tra lui e gli Abbott – la dipendenza dall’eroina. Tanto che il disco in questione, triste ma vero, verrà registrato in separate sedi: batteria, basso e chitarre in Texas, la voce in Louisiana.
Se non consideriamo (immaginandole ininfluenti) queste diatribe in realtà stolidamente divisive, possiamo comunque capire la cifra stilistica dell’album posizionandolo tra un prima ed un dopo di particolare rilevanza: otto mesi prima della sua pubblicazione, difatti, un certo “NOLA” dei Down aveva visto la luce; due mesi dopo la sua uscita, il 13 luglio 1996, Phil Anselmo verrà resuscitato miracolosamente da una quasi fatale overdose di eroina. “The Great Southern Trendkill” è tutto qui, chiuso tra le sue derive fortemente sabbathiane, anche probabilmente dovute al gran successo del debutto dei Down, ed il distacco relazionale che attraversava i Pantera in quel periodo, dal quale la band non è mai più uscita, dallo scioglimento del 2003 alle morti di Dimebag (2004) e Vinnie (2018).
La title-track posta in apertura vuole stupire come e più di quanto aveva fatto “Strength Beyond Strength” nel disco precedente: i versi vomitevoli di Anselmo e Seth Putnam (defunto leader degli Anal Cunt) aprono le danze lanciando a mille il resto della strumentazione per un brano assassino nella prima parte e deliziosamente sludge nella seconda, contornata da un lunghissimo assolo di Dimebag che mette subito i brividi in partenza; con le successive “War Nerve” e “Drag The Waters” i Pantera giocano a fare i furbi andando più sul sicuro, mescolando soluzioni provenienti dai lavori di maggior successo, con la prima che ripercorre nervosamente i fasti di “5 Minutes Alone” e “Becoming” e la seconda, l’unico singolo estratto dall’album, che si presenta un po’ come una nuova “Walk”, una fresca “I’m Broken”. Ci soffermiamo volentieri su questo brano, in quanto lo riteniamo uno dei più dimenticati e meno citati della band: verissimo che non porta nulla di nuovo allo stile che gli stessi Pantera hanno cementato nelle fondamenta, ma quel ritornello così profondo, così paludoso – “Drag the waters some more / Like never before” – ci carica ed emoziona ogni volta di più.
Si arriva così al primo episodio ‘diverso’, al primo vero segnale del chiarissimo omaggio ai Sabbath che i Nostri vogliono dare con “The Great Southern Trendkill”: la canzone “10’s”, dall’incedere paludoso, di fango colante intriso d’acqua, mostra un Anselmo perfetto a trascinare una sofferta prestazione su tematiche delicate e un Dimebag enorme prodigarsi in uno dei solo più emotivi della sua carriera; potrebbe essere un’evoluzione in salsa southern/stoner/sludge di brani come “Cemetary Gates” o “This Love”, ma propendiamo piuttosto ad identificare “10’s” quale puro omaggio al Sabba Nero, come a voler riprendere ed ampliare la cover di “Planet Caravan” che chiudeva “Far Beyond Driven”. Cala il sipario sulla prima metà del lavoro la ondeggiante “13 Steps To Nowhere”, un po’ anonima, che colpisce bene come primo impatto ma che in realtà perde mordente sulla lunga distanza, probabilmente i minuti meno avvincenti dell’album; anche in questa occasione i texani si autocitano componendo una sezione centrale più lisergica e straniante, che utilizza campionamenti simili a quelli usati su un’altra traccia numero 5, ma di un altro disco, “Good Friends And A Bottle Of Pills”.
Nel cosiddetto lato B di “The Great Southern…”, se da una parte troviamo tracce più classiche in stile Pantera – e ci riferiamo a “Living Through Me (Hell’s Wrath)” (impossibile non scapocciare sulla sua metrica quadratissima) e “The Underground In America” (recupera elementi da “Vulgar Display Of Power” spruzzando loro sopra il solito sentore più sludge) – dall’altra abbiamo degli episodi dall’enorme impatto evocativo ed atmosferico: le due “Suicide Note”, pt. 1 e pt. 2, sono splendide nel loro essere agli antipodi, nel loro richiamare paure e dolori ancestrali, disagi profondi e turbe maledette, sfogati attraverso l’intensità della prima sezione e la disumana ferocia della seconda, chiusa da un pugno di riff veramente spaccacollo; e poi “Floods”, certamente uno degli highlight del lavoro, degno erede delle “Cemetary Gates”, “This Love” e “Hollow” citate qui sopra, ballatona cupa ma non totalmente oscura che si alza, s’inalbera e spaventa a fasi alterne, prima di riaffondare silente sotto il mare e diventare di nuovo tempesta con tanto di pioggia, tuoni e fulmini. Il dolce sciabordio della chitarra e di un diluvio infinito, però, ci allontana dal peggio della sofferenza prima che il brano termini.
Il divertissement quasi improvvisato di “(Reprise) Sandblasted Skin”, una traccia che, partendo da quella precedente, pare andare del tutto a zonzo per la sala prove, con i Pantera a mettere uno dietro l’altra le prime ritmiche e i primi riff usciti dai loro strumenti, è l’anomalo punto ad una tracklist che non sarà il non plus ultra della violenza, non rasenterà la perfezione come quelle che l’hanno preceduta, ma che certifica ancora una volta la qualità indiscussa delle capacità compositive del combo texano, il quale, pur invischiato nei dolorosi prodromi della propria fine annunciata, ha saputo infliggere un colpo di coda sibilante e magniloquente a tutti i propri detrattori dell’epoca. Altro tassello fondamentale della nostra musica preferita targato anni Novanta.