7.0
- Band: PAPA ROACH
- Durata: 00:42:11
- Disponibile dal: 27/01/2015
- Etichetta:
- Eleven Seven Music
- Distributore: EMI
Spotify:
Apple Music:
Throwbackl thursday: è l’Aprile del 2000 quando, in piena età dell’oro del nu-metal, i Papa Roach si affacciano sul mercato con il multi-platino “Infest”, album che contribuirà a posizionare definitivamente Vacaville sull’atlante musicale di milioni di ragazzi in tutto il mondo. Come spesso avviene in questi casi, il difficile diventa poi confermarsi sugli stessi livelli, una volta esaurita la spinta propulsiva della moda di turno: a differenza di tanti più o meno illustri colleghi, Shaddix e soci hanno saputo costruirsi da subito una reputazione alternativa, accompagnata da una discografia capace di resistere, con la sola eccezione dell’insipido “Metamorphosis”, alla prova del tempo. Assurti a una seconda giovinezza a seguito del deal con la Eleven Seven Music – divenuta ormai la label di riferimento in ambito mainstream rock -, i Nostri tornano con un ottavo full-length che, dal cover artwork alla scelta del producer, si preannuncia ricco di novità. Superata la perplessità alla vista dei toni rilassanti della copertina, lontana anni luce dai teschi di “The Connection”, ci pensa subito la title track a scaricare la giusta dose di energia sulle sinapsi atrofizzate, con una commistione perfetta di hard rock ed elettronica, grazie alla spinta propulsiva di Kevin Churko in cabina di regia. Peccato che, dopo la classica partenza col botto, ci si trovi di fronte ad un trittico di canzoni scontate come i saldi a fine gennaio – “Skeletons”, “Broken As Me” e “Falling Apart” -, il cui unico pregio è quello di farci apprezzare di più le successive “Love Me Till It Hurts” e “Never Have To Say Goodbye”, due rock-ballad movimentate quanto basta per divertire anche chi era già troppo vecchio ai tempi di “Scars”. Arrivati al giro di boa tra luci e ombre, il lato B si apre con uno squarcio di arcobaleno: introdotta da una base hip-hop e dal flow di un ritrovato Coby in versione Eminem, “Gravity” prende quota grazie al duetto con l’omnipresente Maria Brink, finendo col diventare uno dei pezzi più particolari nel pur ricco songbook della band californiana. Pollice alzato anche per “War Over Me”, “Devil” e “Hope For The Hopeless”, tre brani nel classico stile Papa Roach del periodo “The Paramour Sessions”, anche se l’apice del disco arriva prima con “Warriors”, una scossa di energia impreziosita dalla feature del rapper Royce da 5’9″ all’altezza del bridge e da un beat elettronico in pieno stile euro dance, e poi con “Fear Hate Love”, un’altra power song da cantare a squarciagola sia sotto il palco che sotto la doccia. Difficilmente sarà questo l’album con cui essere tramandati ai posteri, come da trionfalistici proclami della vigilia, nondimeno “F.E.A.R.” conferma il ritrovato stato di forma dei Nostri, e la cosa non può che farci piacere. I tempi della cucaracha sono ormai ben lontani, ma Shaddix e soci sanno ancora come far muovere plantari e smartphone!