10.0
- Band: PARADISE LOST
- Durata: 00:48:55
- Disponibile dal: 12/06/1995
- Etichetta:
- Music For Nations
- Distributore: Audioglobe
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“Words mean so many things”
Eccolo qui, il Black Album del gothic metal. L’apice di un genere, raggiunto dai suoi stessi inventori. Stilisticamente, tecnicamente, commercialmente parlando e per attitudine, l’apoteosi di una carriera non ancora conclusa e tuttora splendida. Lo zenit di un percorso in crescendo e poi mutato nella forma, per poi ancora tornare a ritroso nel tempo, seguendo le direttive autoctone tracciate in questo capolavoro, qui trattato. Paradise Lost e “Draconian Times”, un’accoppiata che trascende passato, presente e futuro del gothic, comprendendoli tutti e tre nel breve arco di quasi cinquanta minuti di tempo, dedicati alla depressa, ma assolutamente godereccia, fruizione dell’album numero cinque del quintetto di Halifax, Inghilterra. Dopo gli imberbi vagiti di “Lost Paradise”, ancora molto legato ad un death metal sporcato di doom, e la gloriosa processione in penombra dei seguenti “Gothic” e “Shades Of God”, il Paradiso Perduto trova le chiavi del suo suono nell’epico “Icon”, altro masterpiece assoluto del genere, uscito nel 1993. A distanza di due anni, però, si compie il vero ed esaltante salto di qualità, sempre per gli allora scaltri tipi della Music For Nations. “Draconian Times” è più di “Icon” e, per altri versi, meno: Gregor Mackintosh, deus ex machina compositivo della formazione d’Albione, imposta le direttive stilistiche su una maggiore accessibilità melodica e su una decadenza malinconica imperante, imbroccando una serie incredibile di intuizioni chitarristiche ben difficile da ripetersi in altri tempi e luoghi; il suo partner-in-crime, il biondo e tristo vocalist Nick Holmes, azzecca invece linee vocali quanto mai accattivanti e affascinanti, incastonandole in testi simbolici, criptici e personali, sempre in bilico tra amore, depressione, paure, religione, suicidio, sofferenza e patemi della vita umana; la produzione di Simon Efemey, noto, oltre che per i suoi lavori per i Paradise Lost, anche per quelli con gli Amorphis, è al limite del bombastico, pulitissima ma neanche troppo patinata, con tutti i componenti del sound in perfetto equilibrio e con finalmente una sezione ritmica valorizzata a dovere: il basso di Stephen Edmondson è onnipresente, davvero pulsante, mentre il dinamico e trascinante drumming del nuovo entrato Lee Morris conduce ragionevolmente per mano i suoi quattro compari; Aaron Aedy, infine, trova assoluto giovamento dallo strabordare solistico e melodico di Mackintosh, producendosi all’opposto in ottimi riff di sostegno all’impalcatura strutturale. Il grandioso cover artwork (e l’arte espressa in tutto il booklet) di Holly Warburton e i riferimenti ai ‘tempi severi, draconiani’ del titolo ci introducono subito benissimo al contenuto dell’opera, inaugurato dall’incedere solenne e imperioso dell’opener “Enchantment”, dotato di un incipit da brividi al pianoforte, uno dei brani più noti e resistenti al tempo della band, un vero abbecedario del gothic metal, così come del resto è la corrispettiva canzone di “Icon”, “Embers Fire”. Ma è tutta la prima parte di disco ad incantare, non solo l’apertura: “Hallowed Land” si staglia vigorosa e iper-melodica, con quell’hook contagioso sotto il ritornello, l’assolo prepotente ed un finale magniloquente, altra traccia-must; il primo singolo “The Last Time”, pezzo quadrato e tetragono con un chorus ripetitivo e penetrante, che però per chi scrive non si è mai elevato di tanto sopra la media delle composizioni targate PL; e poi “Forever Failure”, probabilmente la traccia associata ad un video più nota del gruppo, condita da estratti vocali da un discorso di Charles Manson e caratterizzata da spropositata enfasi gotica e continui richiami al più deprimente e introspettivo doom-gothic di quegli anni; termina la sequenza di brani eccezionali la veloce scheggia “Once Solemn”, urgente e pressante quanto dotata di forte appeal catchy. Da qui in avanti il disco prende una piega leggermente diversa, leggermente dimessa, con il lotto di episodi centrali che, pur restando tra le perle immortali del gothic metal, si abbassa vagamente di qualità: l’atmosfera resta comunque la stessa e le trovate, le soluzioni, i dettagli nascosti in pezzi quali “Elusive Cure”, “Yearn For Change” o “Shades Of God” sono rimarchevoli e innumerevoli. Fino a giungere alla fantastica coppia di brani finali, “I See Your Face”, semplice e lineare ma ricchissima di suggestioni, e l’indecifrabile e nostalgica “Jaded”, chiosa crepuscolare e dolorosa. Immancabile tra i nostri Bellissimi, “Draconian Times” splende di vita imperitura da ormai quasi vent’anni e il suo angosciante chiaroscuro di sentimenti continuerà a bruciare in noi in molti modi, fino alla fine.
“Pain burns in many ways”