7.0
- Band: PARKWAY DRIVE
- Durata: 00:47:20
- Disponibile dal: 09/09/2022
- Etichetta:
- Epitaph
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Premessa: chi scrive nutre un amore viscerale nei confronti dei Parkway Drive, conosciuti quando erano uno dei tanti ‘fenomeni da MySpace’ (“Killing With A Smile” e “Horizon”) e poi cresciuti esponenzialmente in un percorso che, contaminando il metalcore degli esordi con groove nu-metal e arrangiamenti più classici, li ha portati a diventare nel giro di tre album (“Deep Blue”, “Atlas” e “Ire”) una band da arena rock; status consolidato con il penultimo “Reverence” e ben fotografato nel live “Viva The Underdogs”. Dopo un paio d’anni piuttosto turbolenti – dal blocco pandemico all’annullamento del tour americano per problemi interni alla band culminati in terapia, inframezzati dalla crisi climatica che ha colpito la madrepatria Australia e i membri della band in prima persona – c’era molta preoccupazione sullo stato di forma della formazione di Byron Bay, quindi già avere tra le orecchie un nuovo disco è da considerarsi una buona notizia, sperando col senno di poi sia ‘solo’ una catarsi e non il canto del cigno. Date queste premesse, non stupisce che il tono generale dell’album sia decisamente greve (a partire dai titoli), mentre dal punto di vista musicale si avverte un doppio binario, tra canzoni che proseguono il percorso degli ultimi due album (se pur con un po’ di mestiere) ed altri più sperimentali, voltando una volta per tutte le spalle al metalcore più muscolare dei primi lavori. Partendo da questo secondo filone l’esempio più lampante è la title-track, una ballad da “Black Album” arrangiata da Michael Kamen che, passato l’effetto straniante iniziale, cresce con gli ascolti e rapisce con un climax emotivo, suggellato sul finale dalla sei corde squisitamente anni ’90 di un Jeff Ling sempre più co-protagonista di fianco a Winston McCall. Tra gli esperimenti riusciti citiamo anche “If A God Can Bleed” (Predator docet?), con un inedito registro vocale quasi Mansoniano, e “Land Of The Lost”, che riprende il classico mid-tempo muscolare aggiungendo punteggiature futuristiche, anche se l’altro highlight è la conclusiva “From The Heart Of The Darkness”: cinque minuti carichi di energia primordiale come una haka, impreziositi da arrangiamenti affiancati a ritmiche tribali ed una prova vocale ancora più teatrale del solito. Interessante anche il coro spirituale di “The Greatest Fear”, in continuità con le atmosfere di “Reverence”, mentre sul versante più tradizionale il nu-metal del primo singolo “Glitch” sembra una “Crushed” che non ce l’ha fatta; per chiudere il cerchio, al netto dell’intro “Ground Zero” e della strumentale “Stranger”, citiamo “Like Napalm” e “Imperial Heretic” (due potenziali B-side di “Ire”, comunque buone per aizzare le folle) e l’approccio ‘in your face’ di “Soul Bleach”, all’insegna di nu-core stavolta fatto bene. Riassumendo, dunque, abbiamo una band accusata dai fan di aver tradito lo spirito dei primi cinque lavori tra wah-wah a profusione e ballad orchestrali, per poi finire in terapia di gruppo: detta così sembra il remake di un film già visto, ma fortunatamente il rullante di Ben Gordon è perfettamente accordato, “Viva The Underdogs” non è “Some Kind Of Monsters” e “Darker Still” non passerà alla storia dalla porta sbagliata. Giudizio lapidario: il disco meno riuscito del quintetto di Byron Bay da una dozzina d’anni a questa parte (lasciamo fuori i primi tre in quanto incomparabili)? Probabilmente sì, ma il concept di fondo – ispirato da “La Notte Oscura Dell’Anima”, poema mistico di Giovanni Della Croce già utilizzato tra gli altri da Depeche Mode, Van Morrison e Ulver – è comunque ricco di fascino e gli episodi più sperimentali gettano nuova luce sul lato oscuro degli australiani, che non ci dispiacerebbe poter approfondire ulteriormente in un prossimo futuro.