8.5
- Band: PAUL CHAIN
- Durata: 01:07:23
- Disponibile dal: 01/03/1995
- Etichetta:
- Godhead
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Era il 1995 quando il fenomenale “Alkahest” uscì, naturalmente nell’indifferenza più assoluta della gran parte degli ascoltatori. A quei tempi Paul Chain era già considerato un maestro di cerimonia in ambito doom, una vera e propria anima nera che instancabilmente cercava nuovi approcci e nuove soluzioni per evolvere la propria proposta verso lidi sempre più originali ed esoterici. Paul alternava il proprio estro solista – più formalmente inquadrato in ambito heavy-doom – con il Violet Theatre, dove le sperimentazioni erano all’ordine del giorno. L’altra eminenza grigia coinvolta nel lavoro era l’altrettanto mitico Lee Dorrian, all’apice della carriera con i suoi Cathedral, che all’epoca avevano fatto uscire il capolavoro assoluto “The Ethereal Mirror” ed erano in procinto di pubblicare l’eccezionale “Carnival Bizarre”. “Alkahest” è l’incontro di due menti creative piuttosto diverse ma che remano in un’unica direzione e che vengono fotografate nel loro periodo di massimo fulgore. L’album è uscito a nome Paul Chain, com’è giusto che sia, visto che lo sforzo compositivo è caduto quasi completamente sulle spalle del chitarrista pesarese, ma non si faccia l’errore di sottovalutare l’apporto di Dorrian, che ha avuto un notevole peso specifico sulla riuscita del tutto. Le recensioni di allora parlavano della cosa più vicina ai Black Sabbath-era-Ozzy che fosse mai stata pubblicata e, se da un lato ascoltando brani quali “Roses Of Winter” o “Sand Glass” siamo costretti a concordare, dall’altro, se si prende “Alkahest” nella sua interezza, ci si accorge di quanto sia limitativa quell’etichetta. Infatti, nel platter trovano posto sicuramente le influenze del doom rock settantiano, affiancate però da marcati influssi del dark italiano – grande pallino di Paul – di heavy ottantiano appena accennato (“Voyage To Hell”, remake dell’omonimo brano presente su “Detaching From Satan”) e di un gusto mai sopito per alcune sperimentazioni vicine allo space, come è evidente ascoltando la fenomenale “Lake Without Water”. Il doom viene quindi sviscerato in più parti: si parte alla grandissima con il riff memore di “Hole In The Sky” di “Roses Of Winter”, subito doppiato dall’heavy-doom dalle melodie marcate di “Living Today”. “Sand Glass”, al pari delle successive “Static End” e “Sepulchral Life”, è pesantissima e risente dell’influenza dei Cathedral in modo molto evidente. Al contrario, “Three Mater” è parente stretta delle opere di Chain di quel periodo, alternando sezioni darkeggianti quasi liturgiche ad un doom rock non esageratamente pesante ma molto evocativo. “Reality” richiama ancora lo spettro di Iommy & Osbourne, in un modo che successivamente gli Sheavy canonizzeranno nel loro stoner doom. I primi cinque brani sono cantati da Paul con la propria voce acida e quasi sgradevole, lontana da un’intonazione perfetta ma assolutamente calzante sul materiale proposto. Nelle ultime tre tracce invece il microfono passa all’orco Dorrian che – grazie al proprio cantato sporco ed inconfondibile – dona loro quella pesantezza in precedenza avvertita solo a livello chitarristico; il duo in questo frangente è bravo a conservare comunque intatte le atmosfere luciferine e a non sacrificarle sull’altare dell’impatto fine a se stesso. “Alkahest”, uscito per la defunta Godhead ed oggi praticamente introvabile, è stato certamente uno degli apici compositivi di Paul Chain e la collaborazione con il singer britannico ha giovato ad entrambi ed è stata una pietra angolare dell’intero movimento doom. Peccato che oggi di questo lavoro non si ricordi più nessuno, perché a nostro parere rappresenta una delle eccellenze del doom tricolore e meriterebbe quantomeno una ristampa degna di questo nome che ne rilanciasse le quotazioni.