7.0
- Band: PEARL JAM
- Durata: 00:57:05
- Disponibile dal: 27/03/2020
- Etichetta:
- Republic Records
- Distributore: Universal
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Fughiamo ogni dubbio in partenza: difficilmente “Gigaton” è il disco che avrebbe fatto innamorare chiunque dei Pearl Jam; ciò detto è un album che rispetta un marchio di fabbrica consolidato e che si lascia ascoltare piacevolmente. Come paragone, si può far riferimento a “Backspacer”, sicuramente il loro lavoro della fase recente più ispirato; i pezzi diretti confermano il sound a metà strada tra la produzione a marchio Brendan O’Brien (che pure non siede in regia, ma l’influsso pare rimasto forte) e il rock ‘adulto’ da stadio: del resto, ormai, l’unica dimensione in cui Pearl Jam mettono d’accordo tutti, fan e detrattori. I brani più lenti hanno classe e cuore, pur avendo perso un po’ di struggimento a favore di una maturità anche anagrafica… e infine, ci sono gli assodati passaggi ove i cinque di Seattle puntano a rileggere gli Who ed elaborare brani più complessi. Con qualche limite espressivo, ma con una consapevolezza compositiva che fa piacere vedere crescente dopo trent’anni di carriera.
“Gigaton” è un album rock, in fondo, senza troppe etichette o seghe mentali, certo meno stupefacente rispetto a quanto poteva far presagire il singolo “Dance Of The Clairvoyant”, con la sua cadenza post-punk e le spruzzate di synth tanto care ai fan di Editors, Killers &co; tutte band che meritano il loro posto nell’Olimpo dell’indie, ma con cui inevitabilmente e giustamente i Pearl Jam non si mettono in competizione. Il loro posto è un altro, e così ben vengano pezzi trascinanti e riconoscibili come “Who Ever Said” e “Superblood Wolfmoon” che aprono il disco col botto, le strizzatine nostalgiche al lato più noise del grunge (“Quick Escape”), e l’intimismo avvolgente declinato in forme più o meno acustiche, come testimoniato dalla sequenza “Alright” – “Seven O’Clock”. Il lato B dell’album, almeno ideale qualora non siate degli amanti del vinile, ripropone una struttura simile, col crescendo di “Never Destination” e l’incalzante “Take The Long Way” a pavimentare la strada per una sequenza di brani a seguire più ricercati e morbidi. “Buckle Up”, “Comes Then Goes” e “Retrograde” sono le ennesime pagine di diario privato di un Eddie Vedder sempre più leader unico della band; nel primo brano sembrano guardare persino ai R.E.M. di “Murmur” nell’inserimento di note vagamente bucoliche e surreali, mentre nei due a seguire i Pearl Jam giocano a rifare “By Numbers” dei succitati The Who, arrivando a declamare senza remore che “the kids are alright”. Resta solo una traccia, “River Cross”, che non accelera i ritmi, ma mostra una ricercatezza notevole, grazie al sostegno di organo e all’uso prevalente dei tamburi, che costruiscono un brano sospeso e cupo, dotato di una certa epica. In grado di dimostrare che se basso, chitarra e batteria sono e saranno sempre la loro dimensione espressiva ideale, quando i Pearl Jam alzano la testa hanno anche capacità e visioni più ardite da offrire.