9.0
- Band: PELICAN
- Durata: 00:50:18
- Disponibile dal: 04/11/2003
- Etichetta:
- Hydra Head
- Distributore: Goodfellas
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Chi dubita dell’operato dei Pelican e addirittura tende a snobbarli viste le ultime infelici uscite discografiche potrebbe farci il piacere di procurarsi “Australasia”, dato che, dopo dieci anni dalla sua pubblicazione, rimane fino a prova contraria uno dei pochissimi album completamente strumentali (insieme al successore “The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw”) che sia in grado di rappresentare meglio la dicitura ‘post metal’. Lasciamo perdere Neurosis, Isis e Cult Of Luna, altre storie, altre analisi. Qui parliamo della prima band che è riuscita a dare un nuovo volto al post rock e alla musica heavy, la prima capace di fondere questi due aspetti musicali in maniera del tutto fluida e naturale senza l’ausilio di supporti vocali. Il gruppo nasce per volere della concisa sezione ritmica composta dai fratelli Herweg, due individui ‘normali’, vestiti ‘normali’ e senza una particolare personalità predominante tipica del panorama metal. A completare il combo, Laurent Lebec e Trevor De Brauw vengono assoldati alle chitarre: da qui nasce una delle sezioni strumentali più spietate e complete che la musica rock abbia mai conosciuto. Basta un primo ascolto per rendersi conto dell’ottimo lavoro fatto da questi quattro ragazzi dell’Illinois e per capire quanto la loro musica si discosti dai nomi precedentemente elencati, certo, simili, soprattutto gli Isis, ma già indirizzati (Neurosis e COL) verso un apocalisse sonora a tinte grige che non rispecchia per nulla quanto invece architettarono gli autori del platter in analisi. “Australasia” nacque da tutto ciò, da un’idea, non per forza folle o visionaria, di miscelare con spontaneità assoluta i background di due consanguinei, amanti in egual modo di Metallica, Isis, Kyuss, Goodspeed You! Black Emperor e Slint. Immaginatevi tutte queste influenze esaltate da soffi di vita in un microcosmo di umori e sensazioni; immaginatevi di poter vedere radunato tutto ciò che vi piace in un apparato musicale tanto ricco quanto semplice da metabolizzare; immaginatevi una reciproca esaltazione da parte di tutti questi aspetti, tanto da far sembrare vecchie le precedenti sonorità. Non sfigura affatto per costruzioni di trame “Australasia” rispetto a capolavori più datati, e la genuinità con la quale vengono ‘toccate’ certe materie potrebbe fare invidia persino a Aaron Turner. Tuttavia, la vera potenza della formazione sta nell’assetto sismico con il quale vengono caratterizzati i soli sei brani che compongono questo esordio: duri come la roccia, sulfurei e magmatici in ogni loro mossa. Un lento incedere di chitarre, un drumming sofferto, un’atmosfera tesissima che preannuncia una immane catastrofe, l’inaspettato e veloce precipitare degli eventi, una battaglia a colpi di grancassa e riff granitici da stupire persino Tony Iommi o Josh Homme; sono questi semplici elementi una delle portate principali di un lavoro che sa di nuovo suonando vecchio, avvincente in ogni suo passaggio. I brani sono lunghi e il minutaggio dell’ascolto rientra nella norma, non si sono volute fare cose fuori dall’ordinario per la pubblicazione di un disco che, assolutamente, non ha la minima pretesa se non quella di stordire e divertire con una formula fresca ma anche spiazzante – fino a qualche anno fa non eravamo così abituati a sentire interi dischi strumentali – tradotta in episodi strutturati molto bene e che si prendono persino la briga di sperimentare soluzioni dal sapore personale, come l’interludio desertico “GW”, la seguente “Untitled” (dove atmosfere notturne accompagnano echi quasi alieni) o la poderosa “Drought”, ad oggi, il pezzo più ‘metal’ della band. Proprio questa voglia di sperimentare, sommata ad una semplicità disarmante, sono i veri punti cardine di una creatura fin troppo sottovalutata e dimenticata quando si parla di colonne portanti. Le lunghe, articolate e umili divagazioni strumentali dei Pelican ne fanno una band tanto imitata quanto difficile da imitare, da godersi in ogni suo singolo momento in questo bollente esordio e da apprezzare ulteriormente nel seguente capolavoro “The Fire In Our Throats Will Beckon The Thaw”. Da lì sarà il nulla più totale. Forse anche loro si sono abituati all’idea che il bello dura poco.