PERIPHERY – Periphery V: Djent Is Not A Genre

Pubblicato il 07/03/2023 da
voto
8.0
  • Band: PERIPHERY
  • Durata: 01:10:05
  • Disponibile dal: 10/03/2023
  • Etichetta:
  • 3Dot Recordings

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C’era grande attesa intorno al settimo album dei Periphery – non inganni la numerazione romana, la quale non tiene conto del dopppio “Juggernaut”, i cui capitoli “Alpha” e “Omega” risalgono entrambi al 2015 – maestri indiscussi del prog-core/djent che come dei Dream Theater millenial portano con sé il consueto carico di brani chilometrici, uniti alle aspettative polarizzate del pubblico (diviso tra fan adoranti e hater), stavolta acuite da un titolo provocatorio come “Periphery V: Djent Is Not A Genre”.
Lungi dal voler rinnegare le sonorità che li hanno portati alla ribalta, i cinque di Washington mettono subito in riga tutti fin dall’opener “Wildfire”: con una quantità di riff da ‘adozione a distanza’ (la quantità di riff è sufficiente per sfamare a vita una band deathcore), le consuete escursioni vocali di Spencer Sotelo, al limite del pop-punk nei frangenti più melodici, e una coda jazzata con tanto di sax (gentile omaggio di Jørgen Munkeb dei norvegesi Shining), c’è veramente di che divertirsi, per quanto sia difficile tenere testa a “Reptile” (opener di “Periphery IV”).
Il climax melodico procede con “Atropos”, impreziosita da una coda cinematografica, e “Wax Wings”, dove i quattro strumentisti flexano con naturalezza su partiture da emicrania, mentre dietro al microfono sembra di sentire Usher prestato al metal per la naturalezza e l’eterogeneità del cantato pulito, preludio allo zenit ossimorico che ci attende a metà tracklist. Se “Everything Is Fine!” (un botta e risposta coi Destrage, per cui invece ‘everything sucks’, riprendendo parzialmente un loro titolo?) è la perfetta tempesta ritmica nei suoi cinque minuti di caos fantascientifico (nel senso che certe sonorità, e capacità strumentali, sembrano arrivare direttamente dallo spazio); al contrario il synth-pop di “Silhouette” è probabilmente quanto di più minimale, ma non per questo meno affascinante, abbiamo mai sentito dai Periphery, avvicinandosi più ai vituperati Linkin Park di “A Thousand Suns” che agli onnipresenti Bring Me The Horizon.
Discorso simile per “Dying Star”, distillato di saccarosio poliritmico della migliore qualità, mentre ad aumentare il minutaggio ed il tasso di cattiveria ci pensa l’epica “Zagreus” ricca di rimandi mitologici (il pezzo è ispirato a “Hades”, videogame il cui protagonista è proprio il figlio di Ade) e autoreferenziali (uno dei riff richiama “Four Lights” da “Juggernaut: Alpha”). Menzione a parte per gli oltre ventitre minuti del dittico conclusivo: se “Dracul Gras” è il conseto frullatore dove tutti gli elementi (ritmiche chugga-chugga, assoli prog, arrangiamenti in cinemascope) si amalgamano tra loro, al contrario la dilatazione all’estremo della conclusiva “Thanks Nobuo” sembra un po’ forzata.
Finale a parte, i Periphery si confermano i maestri del genere insieme Protest The Hero e Between The Buried And Me (cui aggiungiamo con un pizzico di orgoglio nazionale i già citati Destrage): sul nome del genere in questione non ci sbilanciamo, vista l’evidente idiosincrasia verso il termine djent ma, come diceva Battisti, l’importante è che si possano chiamare emozioni.

TRACKLIST

  1. Wildfire
  2. Atropos
  3. Wax Wings
  4. Everything Is Fine!
  5. Silhouette
  6. Dying Star
  7. Zagreus
  8. Dracul Gras
  9. Thanks Nobuo
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