6.5
- Band: PHARAOH
- Durata: 00:49:19
- Disponibile dal: 24/02/2012
- Etichetta:
- Cruz Del Sur Music
- Distributore: Audioglobe
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Dopo l’appetizer di qualche mese fa a titolo “Ten Years”, che ci presentava gli statunitensi Pharaoh alle prese con due inediti, due riedizioni di vecchi pezzi e due cover, ecco sbarcare sui nostri lettori il nuovo full-length del gruppo capitanato da Tim Aymar. E, a conti fatti, questo “Bury The Light” riesce a sorprenderci pur senza dire niente di nuovo. Come è possibile ciò? Beh, semplicemente in quanto la musica contenuta in questi cinquanta minuti è esattamente quell’US metal con radici negli anni Ottanta che ci saremmo aspettati; ma su questa base, apparentemente posta allo scopo di non tradire di fan di lunga data, troviamo anche soluzioni ed intuizioni che non ci saremmo aspettati in un disco dei Pharaoh. Piccole incursioni nel metal più progressivo, durata media delle canzoni più elevata, un riffing generalmente più serrato alternato a soluzioni che tanto sanno di Iron Maiden… dal punto di vista degli elementi offerti, i quattro di Philadelphia non si sono certo fatti mancare gli ingredienti per confezionare un album interessante e dalla buona longevità. Non parliamo però di rivoluzione sonora, perché, una volta passato l’entusiasmo dovuto alla sorpresa per i nuovi graditi elementi e per il suono leggermente più darkeggiante, ci rendiamo invece conto che i punti forti e quelli deboli dei Pharaoh sembrano essere rimasti del tutto inalterati. La potenza del loro heavy metal squadrato ed arcigno c’è ancora tutta, ma le iniezioni dark e soprattutto quelle progressive tolgono immediatezza ad un sound che già prima non splendeva per accessibilità, e rendono il disco non del tutto fruibile durante i primi ascolti. I saltuari cambi di tempo inseriti in alcune tracce si rivelano infatti un’arma a doppio taglio: se nella lunga e spettacolare “The Year Of The Blizzard” (sicuramente il miglior brano del lotto) rappresentano l’asso nella manica, in altri momenti, come nella complessa “Graveyard Of Empires” o nella tirata “The Spider’s Thread”, risultano invece indurire troppo un sound già di per se poco accessibile. Sotto questo aspetto, l’ugola vetrata di Tim Aymar non aiut,a in quanto, pur appoggiandosi su belle melodie, con la sua impostazione vocale da consumato screamer heavy metal non fa altro che inasprire il sound. La produzione, poi, dà il definitivo colpo di grazia all’accessibilità dell’album: il muro di chitarre, davvero imponente come richiesto dal genere, viene esaltato da un volume troppo alto, che relega il rotondo suono del basso e soprattutto la creativa batteria di Chris Black in secondo piano, facendo sì che ogni canzone risuoni eccessivamente del crunch sempre uguale usato da Marshall, almeno per le parti contrassegnate da un riffing più robusto. Questa scelta sonora fa sì che, a parte la già citata ed eccezionale “Years of The Blizzard”, i pezzi migliori risultino quelli che accantonano il troppo monocorde riffing thrashy in favore di soluzioni più liquide, strappate dagli Iron Maiden degli anni ’80. Con delle scelte ritmiche che puntano più sulla dinamica e sulla snellezza, la band si muove più agile, evitando che il ‘muro’ sonoro di Johnsen seppellisca il resto del sound. Un buon album, dunque, che contiene alcuni buoni momenti ed un paio veramente ottimi, ma che paga forse dazio nell’incupire ed arricchire troppo un suono che già semplice non era. Comunque, lo ripetiamo, un’uscita meritevole, sicuramente superiore a molte altre dello stesso genere.