6.5
- Band: PIG DESTROYER
- Durata: 00:30:55
- Disponibile dal: 07/09/2018
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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Arrivati al sesto album in studio, i Pig Destroyer sembrano aver deciso di cambiare, anche se di poco, i connotati del proprio sound. A livello di impatto complessivo ci troviamo più o meno sulle stesse coordinate di sei anni fa, ovvero quelle di un grindcore fortemente venato di un thrash metal impetuoso. Qualcosa, però, è appunto cambiato rispetto a “Book Burner” e ai lavori precedenti: la musica degli statunitensi ha infatti rallentato il passo (solo a volte, per la verità), certe influenze magari lontane dal metal più estremo sono venute fuori più limpide e una produzione maggiormente rotonda ha conferito al disco un’aurea più moderna. Riffoni macho da groove metal anni ’90, qualche pezzo anthemico piazzato qua e là, una sezione ritmica che gioca più che mai con i tempi, lanciandosi in pattern stentorei e rallentando per sostenere al meglio quei pronunciati midtempo una volta mai così presenti nella proposta della band (se non in EP dichiaratamente sperimentali come “Natasha” e “Mass & Volume”). Certamente non ci si imbatte in melodie ruffiane o in chissà quali amenità, tuttavia è evidente come una componente più groovy e quadrata si sia fatta largo nell’economia di un sound altrimenti teso e rumoroso come al solito.
Un batterista versatile come Adam Jarvis e gli interventi di Katherine Katz e Richard “Grindfather” Johnson (entrambi dai cugini Agoraphobic Nosebleed) hanno aperto al gruppo un ventaglio di soluzioni più ampio, spesso indirizzato verso cadenze da pogo e una densità che solo a tratti erano emerse nel sound dei Pig Destroyer in passato.
Si respira meno frenesia durante la fruizione e questa relativa ponderatezza potrebbe forse attrarre qualche nuovo ascoltatore fra coloro meno abituati a misurarsi con il mondo grind. Prendendo in esame i singoli brani, si fa largo però l’idea che le cose funzionino davvero bene solo quando la band decide di rimettersi a maneggiare le mazze chiodate e di sparare proiettili all’impazzata. Ad eccezione della contorta “House of Snakes”, gli episodi maggiormente calati nel nuovo contesto paiono infatti soffrire di uno sviluppo vagamente bolso, come se il quintetto in questa circostanza faticasse a trovare la giusta ispirazione quando auto-confinatosi lontano dalla sua tipica urgenza. Soprattutto per questo motivo, “Head Cage” si dimostra un album riuscito solo a metà, spesso colpevole di incartarsi nel tentativo di espandere certi confini, quando a volte servirebbe forse poco per dilatarli sul serio e raggiungere esiti dignitosi.