8.5
- Band: POISON
- Durata: 00:38:14
- Disponibile dal: 23/05/1986
- Etichetta:
- Enigma Records
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Los Angeles, 1986. Glamour, hard rock, heavy metal, droga ed un numero impressionante di band che si formano, si sciolgono, si mescolano e cercano sopra ogni altra cosa il successo, successo in pieno stile edonistico (come proprio) di quell’epoca: macchine veloci, Harley cromate, scandali, sesso e follia. In questo panorama, in questa giungla (come la chiamerà pochissimo dopo Axl Rose) erano giunti da un anno tre ragazzi della Pennsylvania; quattro, a voler essere precisi, ma uno di loro si separò subito dalla band. Fu così che, alla ricerca di quel tanto agognato successo, i tre ragazzi (che rispondevano al nome di Bret Michaels, Bobby Dalle e Rikki Rockett), dopo aver audizionato un buon numero di chitarristi, tra cui un certo Saul Hudson, trovarono in C.C. DeVille il tassello mancante al loro mosaico fatto di blues, rock ’n’ roll e heavy metal. Trucco pesante, capelli cotonati, look a metà tra la pop-star inglese 80s ed una prostituta di Sunset Boulevard, ed ecco i Poison pronti ad entrare in studio per registrare il loro primo disco: “Look What The Cat Dragged In”, album che solo negli USA arrivò a vendere più di tre milioni di copie (dietro un compenso iniziale di 30.000 dollari). Il disco si apre con “Cry Tough” ed il desiderio di sfondare è subito chiaro: bisogna gridare a squarciagola per realizzare i propri sogni, per realizzare quello che si vuole; bisogna puntare in alto, che si vinca o si perda, per raggiungere la cima. La musica è un classico concentrato di glam metal, con smaccate influenze rock e blues, ma ci appare, in qualche modo, più scanzonato e rassicurante dei Mötley Crüe (band riferimento della scena, ma – all’epoca – ancora legata ad un’immagine più cupa). Si continua con “I Want Action”, il cui coro iniziale può essere la definizione stessa di quello che viene, a volte con accezione dispregiativa, chiamato pop metal, anche se il pezzo, pur con un riffing ancora una volta vagamente orientato verso il blues, è in realtà più duro ed aggressivo del precedente e lo stesso testo diventa più “sconveniente” con riferimenti sessuali abbastanza espliciti; ci sono tutti gli stereotipi più gettonati del genere, con un andamento che ricorda “Girls, Girls, Girls” (che però, ricordiamolo, uscirà un anno dopo): prima ci si prepara per uscire, con alte aspettative per la serata e qualche riferimento al look, poi alcune autocelebrazioni sulle proprie doti amatorie ed infine uno scambio parlato. Terza traccia ed arriva il momento dell’immancabile ballad. Sappiamo tutti che non è “I Won’t Forget” il lentone struggente per cui sono famosi i Poison, ma era l’epoca d’oro delle power ballad e, anche se questa non è certo la migliore della storia, valse comunque alla band un tredicesimo posto nella classifica di Billboard. “Play Dirty”, invece, ha un tiro più marcato, suoni più sporchi e si avvicina più allo street o sleaze metal che arriverà da qua a pochissimi anni, grazie anche ai suoi riferimenti a risse, droghe ed il classico stile di vita da rockstar maledetta. Il lato A si chiude con la title-track, uno dei pezzi più potenti e meglio riusciti dell’intero repertorio dei Poison: il ritmo è trascinante e ovviamente catchy, spinge, non dà tregua ed è praticamente impossibile restare fermi, mentre “Look What The Cat Dragged In” gira sul piatto, anche oggi a trent’anni esatti di distanza! Un’altra volta il testo è un inno alla vita dissoluta tra alcool, donne e notti insonni. Giriamo il disco e la prima canzone è un inno di un intero genere, un classico glam metal come pochissimi altri, il primo disco di platino dei Poison ed il pezzo che decretò il loro successo, piazzandosi al nono posto della classifica di Billboard: “Talk Dirty To Me”. Il riff che apre la canzone si imprime subito nella mente per il suo marcato tiro rock’n’roll, con la chitarra che sa essere pesante e melodica, mentre il testo, a dispetto del titolo, è forse il più ‘innocente’ di tutto il disco, un raro esempio di quelle canzoni dove tutto è pressoché perfetto: la durata, l’equilibrio tra refrain e chorus, il posizionamento dell’assolo, l’attacco di chitarra ed il finale, quelle alchimie che creano successi planetari. Forse, ascoltando oggi “Talk Dirty To Me”, è difficile rendersi conto che nel 1986 questa musica era assolutamente heavy metal, ma entrava nelle classifiche mondiali e vendeva quanto i nomi più famosi del pop di quegli anni. Certo, esistevano già band che suonavano in modo molto più pesante ma chi si ricorda di quel periodo sa che lo scontro tra glamster e thrasher era qualcosa di assolutamente interno ad un insieme che, per il resto del mondo, era solo metal ed, in questo, le formazioni della scena di L.A. non erano meno estreme, per l’epoca, di altre: ciò che non avevano in pesantezza di sound, lo avevano in attitudine e contenuti. Il disco procede con “Want Some, Need Some”, che si assesta su una sorta di mid-tempo dai toni agrodolci, qualcosa di particolare per i Poison, una canzone che non è una classica power ballad, pur avendone alcune caratteristiche, ma che alterna momenti più malinconici ad altri più veloci e tipici del sound del gruppo. Arriva poi “Blame It On You”, pezzo tirato che riprende quanto espresso finora, forse l’unico filler del disco. Ci avviamo verso la conclusione con “#1 Bad Boy”, brano dal riffing piuttosto pesante e con un cantato più aggressivo; tutto il piglio della canzone (dalle distorsioni delle chitarre al testo, fino al tiro ed al senso generale di ruvidezza) sembra gettare le basi dello street metal che sarebbe esploso, portando al successo planetario Guns ’n’ Roses e Skid Row e dando una forte visibilità all’intero genere. La chiusura è lasciata a “Let Me Go To The Show”, rock ’n’ roll scanzonato, classica teen-song che ha, comunque, il solito piglio da ‘bad boy’ rimanendo un episodio godibilissimo e tirato, ottima chiusura per il disco. Difficile, come scrivevamo, pensare che nel 1986 questa musica che forse oggi verrebbe dai più considerata hard-rock fosse a tutti gli effetti heavy metal (ma, val la pena ricordarlo, lo erano anche band come Europe e Bon Jovi), eppure lo era sotto ogni aspetto: dall’immagine shock, imprescindibile in tutta l’arte degli anni Ottanta, alla pesantezza del suono per l’ascoltatore comune, fino all’estremismo dei temi trattati e del linguaggio usato. Non solo: i Poison sono probabilmente la band che, più di ogni altra, ha incarnato l’immaginario glamster, fatto di trucco, capelli cotonati, amore per il glamour ed ambiguità sessuale (unicamente visiva). Piaccia o no, questo disco rappresenta uno dei punti più alti di un genere e lo ha rappresentato in un periodo in cui la musica metal passava in radio ed in televisione, entrava nelle classifiche ed era, in tutto e per tutto, non ridotta a ghetti mediatici, come sarà negli anni a venire. Da lì a poco sarebbero venuti il successo e l’implosione dei Guns ’n’ Roses, il grunge con tutta la scena di Seattle ed il cambio totale di target da parte di MTV. Da lì a poco, certo; ma allora, nel 1986, le radio di mezzo mondo sparavano a tuono “Talk Dirty To Me”, che dalla California all’Italia usciva dalle casse di ragazzi con t-shirt dei Metallica e degli Iron Maiden, con buona pace delle divisioni e delle guerre tra glamster e thrasher che si consumavano nelle rubriche di posta delle riviste di settore. Oggi, a fine 2016, se siete tra coloro che non ha mai dato una possibilità a questo genere fatto di personaggi dal look un po’ buffo, o conoscete i Poison solo per “Every Rose Has Its Thorn”, non possiamo che consigliarvi l’ascolto di “Look What The Cat Dragged In”, un disco che non sente assolutamente i suoi anni e che ci ricorda, forse con un po’ di nostalgia, l’anno d’oro della musica metal, quel 1986 che ha regalato un numero impressionante di capolavori che, durante quest’anno di Bellissimi, abbiamo cercato di riproporvi.