8.5
- Band: POSSESSED
- Durata: 00:53:54
- Disponibile dal: 10/05/2019
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Warner Bros
Spotify:
Apple Music:
Scegliete l’esclamazione a voi più consona e fatela vostra; custoditela lungo tutti i cinquantatré minuti di “Revelations Of Oblivion” e poi lasciatela andare. Non potrete fare altro: dopo trentatré anni di silenzio discografico, i Possessed sono tornati e, mamma mia che legnata, che perfezione, che goduria. Jeff Becerra e compagni hanno superato sé stessi realizzando un qualcosa che va oltre un semplice comeback, che va oltre un semplice disco death/thrash metal: siamo di fronte ad un’opera chirurgicamente perfetta, maestosamente completa, paurosamente maligna e distruttiva. Compratevi pure uno Zanichelli e stracciatelo perché non riuscirete a trovare l’aggettivo migliore per definire la terza-fatica-terza portata a termine dal combo americano.
Dici death-metal, dici “Seven Churches”, dici Possessed. Doveroso ammetterlo: quel disco, nel 1985, ha fatto la storia, inaugurando un nuovo genere, e molti, moltissimi gruppi (come pure moltissimi fan) lo presero come testimone al quale ispirarsi. Ma con “Revelations Of Oblivion” abbiamo davanti non solo il suo degno successore; il nuovo full-length lo doppia e ne acquista giustamente l’eredità. Registrato presso i NRG e Titan Studios, con lo stesso Becerra nelle vesti di produttore esecutivo, mixato e masterizzato da Mr.Peter Tagtren (e da chi sennò?) nella sua Batcaverna firmata Abyss Studios, l’azione messa a segno dai Possessed non sbaglia di una virgola. Ogni brano è una pietra diabolica incastonata tra le arcate sanguinolente che sferzano la cattedrale dell’oblio presente in copertina. La line-up? Tutti al di sopra della media. L’ugola urlante di Becerra (costruita nel tempo sugli ‘insegnamenti’ di Lemmy) mantiene un tasso di aggressività inarrivabile, talvolta quasi teatrale (alla King Diamond oseremmo dire); ascoltate “Demon” e “Omen” e capirete. Letale il lavoro svolto dalle sei corde di Daniel Gonzalez e Claudeous Creamer, come altrettanto tellurica e puntuale la prova della sezione ritmica guidata da Emilio Marquez. Riff maligni, continui cambi di ritmo non danno tregua all’ascoltatore, voglioso di proseguire in questa autentica discesa all’inferno. Un lavoro perfetto in cui ogni pezzo è divinamente demoniaco. Ed è un’impresa assai ardua analizzare ognuno dei dodici capitoli presenti nella tracklist in quanto, proprio per la loro magnificenza, si rischierebbe di tralasciare dettagli significativi. Potremmo limitarci a scrivere: prendete e ascoltatene tutti. Ma veniamo a noi.
Quando i rintocchi della campana di “Chant Of Oblivion” vengono lentamente sovrastati dal gorgoglio satanico, s’intuisce che qualcosa di decisivo sta prendendo forma. E’ un attimo: il rito può iniziare. “No More Room In Hell”, primo singolo lanciato, e disponibile già da qualche settimana, prende avvio nel modo più esemplare: quattro serie di riff, rullata a cascata prima che Becerra prenda possesso dell’intricato rompicapo sonoro in cui la tempesta di colpi inferti da Marquez ‘tiene a bada’ l’inseguimento biforcuto tra le chitarre del duo Gonzalez/Creamer. Opener più che ottima. E questo è solo il primo girone. “Dominion” è classe da vendere e un assalto all’arma bianca senza alcuna via di fuga. E quando pensi che la trama del brano abbia ormai intrapreso un binario quantomeno lineare ecco che i toni si esasperano ulteriormente, prima che un nuovo salto di ritmo avvalori ancor di più uno dei pezzi migliori del lotto. Ah certo, poi c’è “Damned”, la sismica “Damned”: preparate i vostri colli a dovere, ve ne serviranno almeno un paio di scorta. La consueta dose mefistofelica di riff viene calpestata da un refrain micidiale, mentre il nostro Jeff innalza sovrana l’ennesima litania diabolica. Avanti un’altra. Nel suo incedere, come accennato in precedenza, “Demon” ha molto da spartire con le lezioni impartite dai Mercyful Fate e pure Becerra, in alcuni punti, prende in prestito i vocalizzi maligni del Re Diamante. Favolosa. L’impeto di “Abandoned” lo avevamo già potuto pregustare lo scorso anno in versione demo, quando il nuovo album era stato dato come imminente. Un’attesa prolungata che ha decisamente pagato; un pezzo articolato e pesante che ci aveva avvertito di come “Revelations Of Oblivion” avrebbe letteralmente spaccato.
Altra perla in arrivo; il suo nome “Shadowcult”, presentata come secondo singolo riprendendo l’esecuzione live eseguita dai nostri durante il Bloodstock Open Air del 2017. Un’esplosione di riff monolitica che penetra nelle tempie, diretta, ferale, quasi ipnotica. Impossibile resistere, impossibile fermarsi. Ne vuoi ancora. Si scriveva qualche riga sopra di come anche la componente teatrale faccia breccia nell’oblio ricamato dai Possessed. Bene, “Omen” ne è l’esemplare conferma: a tratti lineare, a tratti criptica, una narrazione infernale che termina con l’urlo disperato del front-man californiano. Un lungo respiro prima di venire falcidiati dalle bastonate inferte da “Ritual”: un treno impazzito governato dalla follia ritmica del funambolo Marquez. Un’altra dimostrazione di thrash/death, un altro mattone intriso di sangue e odio. E veniamo a “The Word”, il brano più melodico e se vogliamo anche più orecchiabile dell’intero full-length. Trascinante e incendiaria al punto giusto, si contraddistingue anch’essa per la mole incalcolabile di cambi di ritmo. Scegliere il brano più meritevole diventa sempre più complicato; facciamo che ognuno avrà il suo. Il tunnel intarsiato dai Possessed sta per concludersi e ad accoglierci alle porte d’uscita c’è pure un pizzico d’italianità: nella terminale “Graven”, infatti, alcuni passaggi alla Bulldozer – proprio quei Bulldozer che accompagneranno la band americana nella data milanese schedulata all’interno dell’incombente tour europeo – si fanno sentire soprattutto in sede di refrain. Si voleva uscire dal tunnel vero? Niente da fare, l’acustico finale di “Temple Of Samael” ci getta definitivamente nell’afflizione più profonda. Per rinsavire c’è un’unica soluzione: ripartire dall’inizio.
Ci venga perdonata la lungaggine ma trentatré anni erano molti, l’attesa pure.