PRIMORDIAL – A Journey’s End

Pubblicato il 12/02/2025 da
voto
8.5
  • Band: PRIMORDIAL
  • Durata: 00:47:16
  • Disponibile dal: 15/06/1998
  • Etichetta:
  • Misanthropy Records

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Nella storia della musica metal ci sono band che non sono state molto fortunate nella scelta e nel rapporto con le etichette. Gli irlandesi Primordial, sebbene ora forti di un sodalizio con Metal Blade che dura da più di vent’anni, hanno passato il loro primo decennio di carriera affidando una sequenza di album meravigliosi a label che non hanno saputo donare loro il giusto supporto.
Dopo la firma sfumata con Candlelight per il debutto (poi affidato a Cacophonous) “Imrama”, un lavoro che rappresentò una ventata d’aria fresca nel panorama black metal e simili, la band di Skerries si accasa alla corte di Tiziana Stupia e della sua Misanthropy Records, il cui catalogo all’epoca comprendeva quasi esclusivamente album destinati a diventare pietre miliari (da “Written in Waters” dei Ved Buens Ende a “Filosofem” di Burzum”, passando per “In Absentia Christi” dei nostrani Monumentum). Come poi la storia ci insegna, la Misanthropy chiuderà i battenti nel 2000, due anni dopo la pubblicazione del secondo disco di Alan Averill e compagni, quel “A Journey’s End” che ancora oggi rimane la vera perla della della loro discografia. Scritto durante un periodo difficilissimo, con la band in crisi, sul punto di sciogliersi più volte e registrato agli Academy Studios (Anathema, Cradle Of Filth e My Dying Bride, tanto per citarne alcuni), ogni sua canzoni trasuda tensione e malinconia, in un flusso di delusione e disincanto tanto pericoloso quanto reale.
I Primordial che escono dai solchi di questo lavoro sono una band diversa da quella odierna, più grigi e autunnali, equamente drammatici e viscerali, ma con una vena di intimismo romantico che in parte si è ridotta progressivamente nei lavori più recenti in favore di un approccio più frontale ed epico.
Le radici della cultura celtica di cui è pregna la loro terra natia, fuse con una musica estremamente descrittiva ed emozionale come il black metal, hanno creato un veicolo artistico unico, che suona ancestrale e primordiale (non a caso) e che si veste di un suono arcano ed acustico anche tramite l’utilizzo di una strumentazione presa in prestito dal rock.
La scelta stessa di piazzare la meravigliosa ed interamente acustica “Dark Song” (il cui testo è una poesia di Amergin Glangel) come secondo brano, senza che questa intacchi minimamente l’impatto di ciò che sta intorno, è un chiaro segno di come la musica di “A Journey’s End” sia un’opera fatta prima di tutto di canzoni, non importa di quale genere. Che sia il muro sonoro della marziale “A Graven Idol”, perfetto incontro tra trame chitarristiche folk e impatto black metal, o il pesante incedere della nera “Autumn’s Ablaze”, che narcotizza la propria claustrofobia con una performance vocale di Alan decisamente trasversale; è proprio lo stile già estremamente maturo del frontman, a metà tra il Nick Cave più gotico, la scuola dark e quella doom classica, il collante di tutto. La quasi totale assenza del classico screaming, in favore della voce pulita, rende questi quarantacinque minuti ancora più originali e memorabili, specialmente nella traccia che dà il titolo all’album, uno dei punti più alti mai raggiunti dai Primordial.
Ritornano le chitarre acustiche, prepotenti nell’intro e subdole in sottofondo, per tutti gli otto minuti, mentre attorno è un vortice toccante di desolazione, un crescendo di ansiosa tensione, come nella più classica scuola romantica, in bilico costante ma che trova il suo climax nella parte finale. Assolutamente da pelle d’oca l’interpretazione di Averill, qui ai suoi massimi storici.
L’oscuro drone/dark ambient che sonorizza il recitato di “Solitary Mourner” tiene alta la tensione in attesa della lunga e cangiante “Bitter Harvest”, che nonostante una lunga introduzione dai toni maestosi si mostra come il momento più malvagio del disco, in cui torna per un momento l’animo più propriamente black metal degli esordi grazie anche all’uso di screaming abbastanza classici.
Il viaggio si conclude con la strumentale “On Aistear Deirneach” coi suoi ritmi folkloristici dettati da strumenti originali come bodhrán e flauti e accompagnati da batteria e chitarre, per una danza rituale che chiude il cerchio di un album che non ha mai avuto il riconoscimento che avrebbe dovuto. Un album forse troppo avanti per il periodo in cui è uscito, che ha fortunatamente riguadagnato parte del rispetto che merita ma che va riscoperto, senza se e senza ma.

TRACKLIST

  1. Graven Idol
  2. Dark Song
  3. Autumn's Ablaze
  4. Journey's End
  5. Solitary Mourner
  6. Bitter Harvest
  7. On Aistear Deirneach
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