
8.5
- Band: PRIMORDIAL
- Durata: 00:58:38
- Disponibile dal: 25/11/2014
- Etichetta:
- Metal Blade Records
- Distributore: Audioglobe
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Primordial, atto ottavo. Sono passati tre anni e mezzo da “Redemption At Puritan’s Hand”, ennesimo tassello di valore all’interno di una discografia che fino ad oggi ha regalato solo diademi. Sembra ieri. Perché nel frattempo i Primordial hanno battuto i palchi europei con instancabile impegno, concedendosi un tour da headliner anche in paesi dove mai erano apparsi in questa veste, come l’Italia, e non sono quindi mai scomparsi dai radar. “Where Greater Men Have Fallen” giunge allora al momento giusto, nel pieno di una crescita artistica e di consensi che trova completa giustificazione anche nell’album in uscita. Di fronte ad un’opera di tale densità e drammaticità, viene spontaneo chiedersi come facciano gli irlandesi a rinnovare ogni volta una tale magia. C’è una tale immedesimazione nel proprio concept lirico/concettuale da farci immaginare i cinque nell’atto di strapparsi l’anima di dosso per consegnarla, come massimo sacrificio votivo, alla propria arte, per cavarne fuori un risultato artistico raro e prelibato. “Where Greater Men Have Fallen” va vissuto intensamente, attimo per attimo, un secondo alla volta, senza trascurare nulla e senza distrazioni. Non è cambiato chissà cosa nella musica dei Primordial: al pari di “Redemption…”, si è scelto di mediare fra l’epic metal estremo, disperatamente eroico, perseguito da “The Gathering Wilderness” in avanti, e le istanze black metal del primo periodo di carriera. Il risultato, però, per quanto possa apparire a tratti prevedibile, è allucinante. E’ allucinante la profondità, è allucinante il lirismo profuso in ogni linea vocale di Alan Nemtheanga, è allucinante la marea di sentimenti controversi che questa compagine suscita in poche note. Ed è incredibile ripensare alla carica battagliera di “To The Nameless Dead” e verificare che rispetto a quel disco i Primordial si siano buttati alle spalle le parti più trascinanti e arrembanti, per affogare in una tristezza insanabile, già racchiusa nei dischi più recenti ma ora deflagrata in una malinconia assoluta, da cui non vi è ritorno. Nello stesso tempo, costatando la mancanza di speranze e l’infinitezza del dolore perpetrato da generazioni di uomini, i suoni si sono fatti più crudi, le strutture meno lineari, le melodie celtiche più afflitte, amare. Non poteva che uscire ingigantita, in questo quadro foschissimo, la vocalità unica di Alan; sembra impossibile per chi ne conosce a menadito l’operato, ma questa volta ci pare abbia trovato nuove, inaspettate risorse nelle proprie corde vocali, arrivando a concepire da un lato urla laceranti di invereconda malignità, dall’altro vocalizzi in pulito così sconsolati che il singer, con essi, pare debba espiare le colpe di intere moltitudini di esseri viventi. Il pezzo più “facile”, se vogliamo, è proprio la title-track, un mid-tempo che ha nell’allitterazione e nell’accumulo di chitarre corpose come fumo di torba, ritmiche solenni e un refrain sospirato la sua carta vincente: si inizia a rabbrividire, scossi nel profondo da un’entità che ci conosce troppo bene e sa dove mettere mano per farci trasecolare, pensare, emozionarci senza che ci possa essere un freno alle nostre reazioni. E siamo ancora alla parte semplice dell’album. Perché “Babel’s Tower” è uno sguardo disincantato proprio alla confusione e alla devastazione perpetrata dal genere umano, la visione dell’individuo solitario che arriva dopo il disastro e ci racconta lo scempio dinnanzi ai suoi occhi; quasi con dolcezza, Alan canta in modo accorato su un tappeto di melodie semplici ma di portentoso effetto, invadendo il nostro cuore con un’alluvione di poetica rassegnazione. “Come The Flood” prosegue su questa falsariga, innestando con più vigore i retaggi di musica tradizionale irlandese, sospinti in alto dalla persistenza delle chitarre acustiche sotto le ariose armonie delle chitarre elettriche, poste in primo piano. Solennità e raccoglimento sono il leit-motiv prevalente in “Ghost Of The Charnel House” e “Born To Night”; nella prima il senso di abbandono indotto dal break semi-acustico e la grandeur del riff portante fanno scontrare l’umana alternanza di arrendevolezza e fierezza, nella seconda il lungo preludio folk viene spaccato da una ciclopica cavalcata gonfia di pathos, degna prosecuzione degli episodi epic metal oriented del passato. Se la chiusura di “Wield Lightning To Split The Sun” emana l’ennesimo profluvio di vibrazioni insostenibili, nel segno dell’epos bathoryano sedimentato nel folclore autoctono della formazione, con un incipit acustico di disarmante perfezione, “The Seed Of Tyrants” erompe come un lancia affilata, per piantarsi nel costato dell’ascoltatore. E’ il pezzo più estremo composto da Alan e soci da “Spirit The Earth Aflame” in poi, black metal epicheggiante bastardo e cattivissimo, sorretto dal drumming infernale di Simon O’Laoghaire e reso insostenibile dalle urla invasate di Nemtheanga. Il gioiello assoluto però è un altro e risponde al nome di “The Alchemist’s Head”: i Primordial si permettono cadenze sghembe e deviate, il riffing si fa meno razionale, ricerca il raccapriccio e la stranezza, mentre Alan proferisce alcune delle linee vocali più indemoniate della carriera. Non è uno stacco completo rispetto a quanto siamo soliti sentire dagli irlandesi, ma è in ogni caso il brano più sperimentale di “Where Greater Men Have Fallen”, che volge lo sguardo al metal occultistico dilagato sul mercato in questi anni. Con costanza, abnegazione e una voglia insopprimibile di migliorarsi e non riciclarsi, i Primordial hanno dato alle stampe un altro lavoro di qualità incalcolabile. Lo divorerete.