9.0
- Band: PRIMUS
- Durata: 00:57:41
- Disponibile dal: 20/04/1993
- Etichetta:
- Interscope Records
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1993: il metal e altri generi, dal rap al funk, si strizzano l’occhio a vicenda sempre più. Sembra naturale abbattere confini fino a quel momento considerati inviolabili, e che tali torneranno in futuro – a ben vedere non per ottusità del pubblico, ma perché le commistioni, spesso, hanno preso pieghe incomprensibili, allontanandosi dal gusto per la sperimentazione e dalla freschezza, per diventare un mix edulcorato da classifica (chi ha detto nu metal?).
Prima però di etichette e brand d’abbigliamento, era stato possibile viversi e godere di musica senza confini, e i Primus di “Pork Soda” sono stati sicuramente tra i sovrani di quest’età dell’oro e della follia.
Un primato che si può spiegare innanzitutto per motivi biografici e d’amore, per così dire. Partendo da Tim “Herb” Alexander, di formazione batterista ska e jazz, un gigante buono che vuole mettere al servizio del rock le polifonie studiate fin da ragazzo ascoltando i suoi eroi: Stewart Copeland e Neil Peart in primis. Poi, Larry LaLonde: uno di quei miti usciti dalla Bay Area nei primi anni Ottanta, chitarrista sugli album classici dei Possessed, ma presto votato anche lui alla sperimentazione. I primi passi in tal senso li fa quando conosce nei Blind Illusion, band thrash non proprio canonica, un talentuoso bassista, che diverrà l’anima dei Primus, e ovviamente parliamo di Les Claypool. Questi, cresciuto da amico e compagno di scuola di Kirk Hammett e Mike Bordin, introietta sia il thrash che il funk metal dei due sodali, poi il culto per Geddy Lee (e ridai coi Rush…), per la musica country, per i cantanti più sguaiati ed espressivi insieme, primo fra tutti il mito Tom Waits. Ecco, tutto questo e molto di più sono i Primus, la prima band assimilabile al metal, in cui è il basso lo strumento solista, e già basterebbe.
Al momento dell’uscita di questo disco, siamo in realtà già al quarto full length per la band californiana; una band così folle da esordire con un live, passando per l’acerbo ma stuzzicante “Frizzle Fry” e lo scoppiettante “Sailing The Seas Of Cheese”, già inaspettato disco d’oro. Le aspettative erano quindi alte, ma la reazione per molti, dopo il primo ascolto, fu più o meno simile al maiale di plastilina che fa bella mostra di sé in copertina: occhi spalancati in un sentore di follia, simboleggiato dalle bolle che lo circondano. E che sembrano scoppiettare dalle quattro (e a volte più…) corde di Claypool.
Tutto quello che aveva colpito il pubblico in precedenza, qui è presente all’ennesima potenza, in una sorta di improbabile concept atto a smontare il Mito Americano: “Grab yourself a can of pork soda/You’ll be feeling just fine/Ain’t nothin’ quite like sittin’ ‘round the house/Swillin’ down them Cans of swine”, recita la titletrack, e questo sottotesto di una vita disagiata all’ombra del consumismo e del sorriso ebete, conquistato con una bibita, della droga o altri acquisti compulsivi, percorre quasi ogni brano. Spesso, ovviamente trasfigurato all’ombra del sorriso beffardo di Les (e compari), che all’invettiva pura preferisce celebrare il suo amore per la marijuana (“DMV”) e per la pesca (“The Ol’ Diamondback Sturgeon”, adorabile comedy in musica). E la musica? Se non avete mai sentito i Primus, ripensate alle band che abbiamo citato in apertura, aggiungeteci un pizzico di Zappa e Captain Beefheart in forma accessibile, ma soprattutto vergognatevi.
Qua potrete trovare comunque l’intero campionario. Ci sono brevi brani strumentali che sembrano quasi dei jingle sbeffeggianti verso la frontiera e le feste comandate (“Pork Chop’s Little Ditty”, “Hail Santa”), ma anche altri brani dove, pur senza la presenza della voce, vi imbatterete in suoni liquidi da THC (“Wounded Knee”) o in cavalcate in cui il power trio diventa realmente tale (“Hamburger Train”). In questa sorta di crescendo a ignorare la tracklist, trovano posto pezzi apparentemente più lenti introspettivi, dove la sezione ritmica riesce a infilare cambi di tempo e accelerazioni sincopate impreviste (“Nature Boy”, “The Air Is Getting Slippery”), deformazioni quasi orientali, senza rete ed eppure ricche di melodia (“Bob”, “Nature Boy”) e ancora l’allucinata “Mr. Krinkle”: un brano dove il basso è così in primo piano da… non esserci, sostituito da un contrabbasso suonato con le unghie e i denti, potremmo dire. E poi, una manciata di brani entrati ormai tra i classici della band, dove la capacità di suonare qualunque ritmo e melodia di Claypool si interseca a meraviglia con la sua voce da cartoon, con un diavolo misurato (l’ossimoro potrebbe essere la misura stessa dei Primus…) dietro le pelli e con quelle tessiture acide e psichedeliche che dimostrano la grandezza di LaLonde; chitarrista che può apparire dimesso solo agli scriteriati, e che proprio nel suo ‘togliere’ – si tratti di riff, bridge o il senso di sicurezza di una sequenza di accordi – sa essere unico. Da “My Name Is Mud” a “Welcome To This World”, passando per le già citate “DMV” (trascinata da uno slap alle soglie del pazzesco) e “Pork Soda”, tutto sembra possibile, tra questi solchi, purché si affronti con una risata.
La stessa risata che, dopo un paio di addii e ritorni dietro la batteria, ancora deforma i visi di questi tre strampalati geni; capaci negli anni – tra la band principale e i loro progetti solisti – di coverizzare interi album dei Rush o dei Pink Floyd, ma anche la colonna Sonora di “Willy Wonka”, con tanto di Oompa Loompa sul palco. Oppure di suonare al fianco di Maynard Keenan, del già citato Tom Waits o di Sean Lennon con la consueta e ironica classe, divertendosi e facendoci divertire ancora a vent’anni di distanza da questa pietra miliare.