7.0
- Band: PSYCHEDELIC WITCHCRAFT
- Durata: 00:18:35
- Disponibile dal: 10/07/2015
- Etichetta:
- Taxi Driver Records
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Taxi Driver Records cura l’uscita di questo “Black Magic Man”, esordio assoluto per la compagine italiana Psychedelic Witchcraft, composto da quattro canzoni inedite create dalla band. Più precisamente, sembra che l’intera scrittura dei pezzi sia stata curata dall’avvenente vocalist e frontwoman della band Virginia, che dimostra quindi, oltre che delle ottime doti vocali, un interessante estro artistico in fase compositiva. Nei solchi di questo primo EP, ci muoviamo con agilità nell’oramai attempato territorio del proto-doom di fine anni ’60, periodo in cui i Coven di Jinx Dawson o i britannici Black Widow iniziavano per la prima volta a fondere il loro rock-progressive con tematiche occulte e misteriche, quando non esplicitamente sataniche. Affascinati pesantemente da questo flavour esoterico, gli Psychedelic Witchcraft riescono a darne una interpretazione sincera e credibile, senza scadere solamente in banali clichè ma andando invece a dare vita a della musica intrigante ed adeguatamente longeva. “Angela”, canzone d’apertura, è forse l’episodio più strutturato di tutti, dove un riff in pieno 60’s style viene accompagnato dalle linee vocali avvolgenti e calde della cantante, prima di sfociare in un assolo di chitarra liberatorio che conduce fluidamente al termine della canzone: apprezziamo molto la scelta di muoversi su tonalità vocali abbastanza basse per una donna, evitando “sparate” eccessive di facile presa ma abbastanza prevedibili, ed aumentando esponenzialmente il phatos evocato durante l’ascolto. “Lying On Iron” rallenta vistosamente il ritmo, è la ballata dell’EP, ed anche in questo caso è la voce di Virgin Witch a farsi protagonista, soprattutto in un finale in crescendo davvero toccante. Si torna a battere i piedi durante la movimentata titletrack, che pur incentrata su pochi, semplici elementi, riesce a sprigionare grinta a volontà, prima di tirare nuovamente il fiato sulla conclusiva “Slave Of Grief”, dove un minimale giro di chitarra sorregge le lyrics disperate della voce. Al termine dell’ascolto, a stupire realmente, è il grande senso di coesione sprigionato dalla breve scaletta del disco, nonché la facilità disarmante con cui viene rievocato un determinato periodo musicale e storico lontano ormai mezzo secolo da noi: sembra quasi che la band sia stata catapultata nel bel mezzo della nostra epoca con una macchina del tempo, ma che appartenga in realtà a quel fumoso e psichedelico momento che ha portato, di lì a poco, alla nascita delle prime forme di rock pesante e (doom) metal. Per il primo album di lunga durata, ci aspettiamo una maggiore stratificazione a livello di arrangiamenti e complessità generale delle canzoni, unico tratto distintivo rispetto alle band di riferimento precedentemente citate, nonché ad un sound preferibilmente più hard, soprattutto per quel che riguarda le distorsioni delle chitarre, forse in questo caso eccessivamente pulite. Detto questo, sfidiamo chiunque a non rimanere ammaliato, ascolto dopo ascolto, da questi quattro ottimi episodi di vintage-rock allergici alla polvere e alla noia.