QUEEN – Queen II

Pubblicato il 11/11/2018 da
voto
9.5
  • Band: QUEEN
  • Durata: 00:40:42
  • Disponibile dal: 08/03/1974
  • Etichetta:
  • EMI
  • Distributore: EMI

Spotify:

Apple Music:

I Queen? Nella rubrica I Bellissimi? Be’, perchè no? Solo chi non conosce accuratamente una delle più importanti entità musicali della storia del rock contemporaneo potrebbe stupirsi di ciò: trasversale come pochi altri, nel corso di una carriera ultra-decennale e dalle molteplici sfaccettature, il gruppo del mai troppo compianto Freddie Mercury, di Brian May, Roger Taylor e del più defilato John Deacon ha scritto innegabilmente pagine monumentali di musica per tutti i gusti, partendo dall’opera-rock song per antonomasia, “Bohemian Rhapsody”, passando per due fra le hit da stadio più riprodotte e cantate nei palazzetti del globo, “We Are The Champions” e “We Will Rock You”, vagheggiando e componendo brani poi andati a significare qualcosa per molti – “Another One Bites The Dust”, “I Want To Break Free”, “I Want It All” – fino infine ad arrivare a quell’immenso lavoro a nome “Innuendo” che ha, con poche speranze per tutto ciò che è sopraggiunto postumo, messo fine all’esistenza della band, qualche tempo prima della dipartita di uno dei lead singer più iconici e dotati del panorama rock (e non solo) di tutti i tempi.
Ebbene, considerando che a fine novembre uscirà in Italia proprio l’atteso film che documenterà la storia della band inglese dagli inizi fino all’indimenticabile apparizione al Live Aid del 1985, ci pareva il momento perfetto per riconoscere ai Queen qualcosa di non fondamentale, ma comunque presente, della loro carriera: l’aver, a modo loro, influenzato diversissime formazioni heavy metal e aver lasciato un sotterraneo ma forte imprinting personale all’interno dell’evoluzione della nostra musica preferita. Non si spiegherebbero, altrimenti, le complesse velleità operistiche dei Blind Guardian, tanto per fare un esempio, oppure la stolida volontà dei Metallica nel far girare tutt’oggi nelle loro setlist la cover del brano “Stone Cold Crazy” (tratto dal terzo lavoro dei Queen, “Sheer Heart Attack”). E ci fermiamo qui, con gli accostamenti e i rimandi.

Nati nel 1970, i Queen pubblicano, con gran fatica e dopo una serie cospicua di ritardi ed imprevisti, il debut-album omonimo solo nel 1973, avendo già composto quasi per intero il successore ed in parte, quindi, riconoscendosi poco nella prodigiosa manciata di canzoni presente sul primo disco, un compendio di heavy metal/hard rock e progressive rock influenzato parecchio da Led Zeppelin, Mott The Hoople, T-Rex e, a tratti, Black Sabbath. Il buon responso di critica non altrettanto seguito dalle vendite e la fallimentare resa del singolo “Keep Yourself Alive” non scoraggiano i Nostri, che registrano il secondo “Queen II” – con un titolo che probabilmente sta un po’ a significare ‘ok, ora ci riproviamo meglio!’ – e lo danno in pasto alle masse britanniche e d’Oltreoceano l’8 marzo 1974 su EMI/Elektra, a soli otto mesi dall’esordio. Lo precede il singolo “Seven Seas Of Rhye”, primo pezzo della band ad entrare nelle classifiche UK: più breve di “Keep Yourself Alive”, il brano aveva chiuso, in versione strumentale e solamente accennato, l’album precedente, per cui la scelta pare logica e ben programmata; in poco meno di tre minuti, questo episodio si presenta incredibilmente diretto in rapporto alla sua complessità, con cambi di tempo, sovraincisioni, multi-tracce e continui intervallarsi di voci corali e solitarie; in pratica, la perfetta anticipazione-formato-bonsai di ciò che conterrà l’imminente capolavoro.
“Queen II” è un lavoro atipico nella discografia dei Queen, diviso nettamente in due parti, il White Side ed il Black Side. Nel tentativo di richiamare i pomposi vestiti di scena che i suoi compositori usavano nei loro primi anni di vita, solitamente o tutti bianchi o tutti neri, questo disco setta involontariamente tutta l’iconografia della prima parte di carriera del gruppo, dalle sonorità prevalenti ai costumi, appunto, fino ad arrivare all’indimenticabile immagine di copertina, poi ripresa e resa famosa su tutta la Terra dal video di “Bohemian Rhapsody”. A livello musicale la band è innegabilmente progredita, lasciando nell’armadio parte delle influenze zeppeliniane per iniziare a produrre materiale molto più originale e identificativo: soprattutto i brani composti da Mercury – tutti quelli del Black Side – denotano una fortissima deriva verso l’art-rock ed il rock progressivo e imprevedibile che poi sfocerà completamente nella sua grandiosità nei successivi dischi gemelli “A Night At The Opera” / “A Day At The Races”. Il White Side, invece, composto da Brian May con la sola, breve ma già pungente, intromissione di Roger Taylor per il brano “The Loser In The End”, è più emotivo e ‘canonico’, con pezzi di hard-rock decadente e quasi epico, con la caratteristica profondità lirica ed emozionale che sarà per sempre ad appannaggio della scrittura del riccioluto costruttore della sua Red Special. Taylor? Be’, il buon Roger non è mai stato un songwriter ispiratissimo e sono pochi gli episodi veramente ‘tosti’ che gli si possono attribuire: fortunatamente il pezzo succitato è fra questi…

E’ la strumentale “Procession” ad aprire il disco, una marcia funebre cadenzata dal lieve tocco della cassa del biondocrinito drummer e dalle multiple tracce di chitarra registrate da May, che si dipanano diversamente nei due canali destro-sinistro prima di riverberare in un effetto chitarristico – ricordiamo che i Queen hanno introdotto effettistica e sintetizzatori solamente con l’album “The Game”, del 1980; in precedenza, tutto è stato suonato senza l’ausilio di strumentazione elettronica – che diventa il delicato incipit di “Father To Son”, l’opener effettiva di “Queen II”. “Father To Son” è già un ottimo esempio di progressive hard rock, ancora influenzato (e meno male) da commistioni blues-zeppeliniane ma che si contorce splendidamente tra momenti di placida calma e riflessione ed esplosioni cadenzate di proto-metal sui generis. Mercury è già sopra le righe, ci sono già i cori multipli ma la sezione strumentale con assolo è quella che rapisce di più. Segue a questo primo manifesto una delle canzoni più sottovalutate e sconosciute dell’intero catalogo Queen, pur essendo di un fascino ammaliante e atmosfericamente superlativa: “White Queen (As It Began)” fu scritta da Brian in ricordo della sua prima, non corrisposta, fiamma amorosa, poi diventata una delle sue migliori amiche. Ebbene, questo amore platonico, all’interno del brano, si traforma in una misteriosa e triste Regina Bianca che vaga a tormentare le notti di comuni mortali; la forza malinconica e l’epicità della track in questione sono sbalorditive, così come il contrasto tra la delicatezza degli arpeggi portanti e l’impatto delle chitarre metal, accentuato da un Freddie determinatissimo. Si cala alquanto con i successivi motivi, la più compassata “Some Day One Day” e la già accennata “The Loser In The End”: “Some Day One Day” è cantata interamente da May, al suo esordio quale main vocalist in una ballata soffusa e quasi mesta, prodotta appositamente con suoni dimessi e innocui, con chitarre che si rincorrono in continuazione ma che mai puntellano con forza il brano; brano che si apprezza a pieno titolo dopo svariati ascolti, probabilmente il punto più basso del disco. “The Loser In The End”, invece, tira su il morale della truppa con un incipit ‘stomp’ di batteria ed un groove bluesy da far scapocciare chiunque dotato di muscoli del collo: è Taylor ad occuparsi della voce, nel raccontare una delle sue tipiche storie giovanili di ragazzini complessati e ribelli; e anche qui, come praticamente ovunque in tale lavoro, le chitarre di May suonano in mille modi differenti e da brivido.

Si passa quindi al Lato Nero, al lato oscuro della Forza, dove l’ambiguo e svolazzante Freddie Mercury inanella una serie di composizioni annichilente: tralasciando la chiosa narrata sopra di “Seven Seas Of Rhye”, è “Ogre Battle” a portarci nel mondo fantasy spesso utilizzato da Mercury nei suoi primi anni di composizione. La canzone è senza alcun dubbio heavy metal e può essere considerata stilisticamente una sorta di proto-thrash metal, con un riff portante che non potrà non lasciarvi di stucco se ricordate i Queen solo per il rockabilly di “Crazy Little Thing Called Love”; la Battaglia fra Orchi poi si intensifica in una sezione strumentale caotica e altamente bellica, per infine esaurirsi in un’ultima accelerata vorticosa, un grido multitonale ed un colpo di gong. Quest’ultimo porta ai ticchettii d’orologio che rintoccano introducendo la folle corsa di “The Fairy Feller’s Master-Stroke”, marcetta imprevedibile e pazzoide il cui testo letteralmente narra cosa succede all’interno del quadro omonimo dell’artista (e parricida) inglese Richard Dadd, ‘crosta’ di cui Mercury al tempo era follemente innamorato, tanto da visitare la Tate Gallery quasi ogni giorno; in questo brano, più che in altri, possiamo apprezzare anche delle splendide linee di basso di John Deacon, che effettivamente tengono in mano le redini di tutta l’allegra andatura. Non c’è un attimo di pausa, però, e il lungo, ininterrotto medley prosegue con la breve ballata pianistica “Nevermore”, un dolce e leggiadro intermezzo ad appannaggio del solo Freddie (più qualche coro) che conduce placidamente nell’antro mefitico e malvagio della Regina Nera, alter-ego streghesco di quella Bianca descritta da Brian May ad inizio disco. Questo episodio è sia il perfetto seguito di brani altamente progressivi contenuti nel primo album, come ad esempio “My Fairy King” o “Great King Rat”, sia il prodromo per le seguenti rock-opera che costelleranno i successivi lavori dei britannici – “Bohemian Rhapsody” (ancora!) e “Somebody To Love” su tutte; difficile descrivere sei minuti e mezzo di musica in cui tutto ed il contrario di tutto transitano dai vostri padiglioni auricolari: fossimo ai giorni nostri, forse solo gruppi fuori dagli schemi metallici quali la Diablo Swing Orchestra e simili sono in grado di riprodurre le stesse sensazioni a 360°. Certo è che “The March Of The Black Queen” va annoverata tra le migliori composizioni in assoluto del quartetto, con un Farrokh Bulsara ispirato, eccentrico e folleggiante come non mai. A ribaltare le atmosfere dark fantasy fin qui create, ecco arrivare a sorpresa la Spectoriana “Funny How Love Is”, un crescendo estatico e roboante dove incessanti percussioni, tamburelli e cori la fanno da padrone, mentre ancora una volta Mercury si lancia in voci impervie e tonalità irraggiungibili. La musica sfuma lenta, infine, fino al silenzio spezzato dal frizzante accordo di piano che presenta “Seven Seas Of Rhye”…

“Queen II” resta a malincuore uno dei lavori meno conosciuti dei Queen, ma forse proprio per questo uno dei più apprezzati dalla mastodontica mole di veri fan accumulati dalla band nel suo ormai tortuoso percorso di vita. Dietro solo a “A Night At The Opera”, ma per noi anche superiore, è un lavoro che realmente non morirà mai.

TRACKLIST

  1. Procession
  2. Father To Son
  3. White Queen (As It Began)
  4. Some Day One Day
  5. The Loser In The End
  6. Ogre Battle
  7. The Fairy Feller's Master-Stroke
  8. Nevermore
  9. The March Of The Black Queen
  10. Funny How Love Is
  11. Seven Seas Of Rhye
0 commenti
I commenti esprimono il punto di vista e le opinioni del proprio autore e non quelle dei membri dello staff di Metalitalia.com e dei moderatori eccetto i commenti inseriti dagli stessi. L'utente concorda di non inviare messaggi abusivi, osceni, diffamatori, di odio, minatori, sessuali o che possano in altro modo violare qualunque legge applicabile. Inserendo messaggi di questo tipo l'utente verrà immediatamente e permanentemente escluso. L'utente concorda che i moderatori di Metalitalia.com hanno il diritto di rimuovere, modificare, o chiudere argomenti qualora si ritenga necessario. La Redazione di Metalitalia.com invita ad un uso costruttivo dei commenti.