8.5
- Band: QUEENSRYCHE
- Durata:
- Disponibile dal: 22/07/2003
- Etichetta:
- Sanctuary Records
- Distributore: Edel
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Parlare di una nuova uscita in casa Queensryche obbliga il recensore di turno a tirare in ballo (che lo voglia o meno) il concetto di “diversità”. Una distanza siderale dalle altre formazioni connaturata alla storia ventennale del combo di Seattle, pionieri del “metal intelligente” e del concept a sfondo sociale in ambiti, quelli della musica dura di metà anni ’80, interessati più ad alzare la voce, alla velocità esecutiva ed al grado di distorsione, piuttosto che all’aspetto lirico della propria musica. Pietre miliari (“Rage For Order” e “Operation Mindcrime”) le cui note hanno forgiato lo stile di gran parte dei moderni eroi del metal progressive. Diversità manifestata nel sondare terreni musicali apparentemente “proibiti” per una metal band: gli accenni di World Music e i toni cupi di “Promised Land”, le riletture del ciclone grunge in “Hear In The Now Frontier” e nel successivo “Q2K” (l’album che segna l’ingresso di Kelly Gray al posto del defezionario De Garmo), lavori che hanno diviso la critica, spesso superficiale e prevenuta verso tutto ciò che trascende i propri gusti musicali.
Un gruppo destinato a far discutere, ancor prima di avere l’agognato cd nel lettore. Il pre-Tribe, come consuetudine, complice anche il ritorno in formazione di Chris, è stato segnato da voci (assolutamente infondate) che parlavano di un ritorno al metal degli esordi, accantonando le sonorità delle ultime fatiche da studio, voci smentite clamorosamente dal parto dell’ennesimo capolavoro.
“Tribe” può essere descritto come l’anello di congiunzione fra “Promised Land” e “HITNF”, inquietudine e riflessioni crude espresse nella forma canonica della rock song d’alta scuola. Se di ritorno si deve parlare, e se si vogliono cercare punti di contatto con il passato, questi riguardano la riproposizione del formato concept-album, un contenitore per il maestoso impianto lirico, scevro da un certo tipo di prolissità musicale cara al carrozzone metal progressive. Concepito a partire da una una riflessione sulla teoria evoluzionistica e su quella del caos, l’album mostra, con l’avanzare dei brani, come il vecchio concetto di territorialità sia stato sostituito da un senso di comunanza creato dalla condivisione delle stesse visioni, per cui il territorio tribale diviene virtuale e culturale.
Simili tematiche non potevano non essere accompagnate da un sound evocativo e maestoso, a partire dallo spettacolare mid-tempo di “Open”, dominata dal cantato leggiadro di Geoff ed illuminata da aperture melodiche di rara bellezza. Un intro tribale introduce “Losing Myself”, gran gioco di wah, ed approccio mainstream molto evidente, sorretta da riff durissimi. Il secondo capolavoro ha il nome di “Desert Dance”, persa nelle sue suggestioni orientali, nei lampi di puro hard rock e nelle grida concitate del refrain, una sorta di “Disconnected” del nuovo millennio. Anche la prima ballad “Falling Behind” non tradisce le attese, accordature aperte ed un Tate sciamanico, mentre De Garmo si prodiga in un gran lavoro di slide. “Great Divide” presenta un riffing ed un incedere simile a quello di “Some People Fly”, mentre “Rhythm Of Hope” è impreziosita da un gran lavoro di archi. Giungiamo al capolavoro assoluto costituito dalla titletrack, una song dal feeling disarmante, tra le sue percussioni circolari, le vocals sussurrate (e doppiate) di Geoff, le accordature bassissime e l’incredibile esplosione del ritornello, il classico brano che i Korn (o i Deftones) non riusciranno mai a scrivere. “Blood” rappresenta l’unico episodio anonimo dell’album, richiamando, con i suoi suoni artificiali e gli ammiccamenti all’elettronica, il disco solista di Geoff. Finale in grande stile con una bellissima elettric ballad, “Doing Fine”, dove i Queensryche strizzano l’occhio alle calde sonorità dei Black Crowes più romantici. L’ennesimo capolavoro di una band senza confini.