7.5
- Band: RAGING SPEEDHORN
- Durata: 00:31:50
- Disponibile dal: 23/10/2020
- Etichetta:
- Red Weed Records
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Perché sentiamo appiccicaticcio sotto i piedi, l’aria intrisa di fritto e sudore, la tappezzeria alle pareti cade a pezzi e ha un colore vistoso e inclassificabile? Ah già, stiamo ascoltando il nuovo album dei Raging Speedhorn! Così ci siamo fatti prendere la mano con l’immaginazione e siamo stati catapultati in qualche zona rigorosamente proletaria della periferia inglese. Meglio area portuale/industriale, meglio se in declino, ancorata a un immaginario di massimo metà anni ’80. È qui, in un ambiente apparentemente sordido e assai verace, che opera una vera leggenda working class del metal d’Oltremanica, quella dei Raging Speedhorn. Per la prima volta orfani dello storico cantante John Laughlin, i duri a morire sudditi di Sua Maestà non hanno fatto una piega, inserendo di fianco all’altro vocalist Frank Regan il nuovo entrato Dan Cook, rinsaldando un duopolio vocale che persiste nel vomitare minacce sull’uditorio, oggi come nei primi 2000, quando i Nostri sbucarono fuori con ancora addosso retaggi nu-metal.
Nel 2020, a sei anni dalla reunion del 2014 e dal concerto al Damnation Festival che ne sancì la rinascita, i Raging Speedhorn sono una macchina di sludge/doom/hardcore perfettamente oliata e al passo coi tempi. L’avvicendamento al microfono non ha portato scossoni, né sul piano meramente vocale né per qualche netto aggiustamento stilistico, portando avanti con successo il discorso dell’ottimo “Lost Ritual” (2016). Sono rimaste intatte la freschezza, l’energia ribalda, la tracotanza hooliganesca con cui i sei vanno all’assalto e fanno scapocciare e gridare, in virtù di una ricetta dai pochi ingredienti ma cucinata con certosina attenzione e amore per questi suoni. Un po’ come accaduto nell’immediato predecessore, la tracklist alterna uptempo travolgenti e massicci tempi medi, con la seconda casistica situazione ideale per far detonare un riffing cicciosissimo e oleoso, una dorata fanghiglia che fa quasi a gara con quella dei Down di Phil Anselmo (sentite “Doom Machine”, a riguardo). La cura dei particolari, dalla bilanciata, potente e pulita produzione ai riff molto ispirati, a talune melodie assai pronunciate e insoliti inserti di tastiera, è di prim’ordine e ammicca a un uditorio non per forza avvezzo a queste sonorità. Peraltro molto dirette e arrembanti, dall’effetto adrenalinico istantaneo.
Oggi più che mai, l’operato della band si fa veicolo per divertimento scatenato e l’aizzarsi di una tipica atmosfera da concerto ‘ignorante’, quelli in cui anche i più dotati di aplomb perdono il senno e vanno a cozzare sugli altri avventori, incapaci di resistere alle ‘provocazioni’ provenienti dal palco (chissà quando accadrà di nuovo di vivere scene simili…). Senza che ciò comporti una perdita di accuratezza in quanto suonato o un effettivo alleggerimento di una proposta che permane heavy e massiccia per tutta la durata di “Hard To Kill”. Coese, brutali, intrise di uno spirito hard rock/metal old-school in certi punti lampante (il dondolante andamento di “”The Beast”, per dire), le nove tracce del disco sono una vera goduria per chi desideri farsi trascinare dal potere intrattenitore della musica, senza chiederle alcun tipo di impegno, concentrazione, sforzo per essere capita. Se proprio serve un motivo per convincersi della bontà di quanto qui contenuto, basteranno gli istantanei schiaffoni della deflagrante opener “Snakebite” o l’urlaccio “’Cause I’m hard to kill” in avvio della titletrack a farvi comprendere che aria tiri. Bentornati ragazzacci!