5.0
- Band: RAISED FIST
- Durata: 00:31:00
- Disponibile dal: 15/11/2019
- Etichetta:
- Epitaph
- Distributore: Self
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Nei tardi anni Novanta e nei primi Duemila i Raised Fist non sono mai stati abbastanza celebrati per l’importanza che hanno avuto nella prima parte della loro carriera, quando in breve tempo sono riusciti a diventare uno dei gruppi guida della scena hardcore scandinava ed europea con un suono che per vari aspetti anticipava – e di molto – anche certe istanze metal-core poi diventate popolarissime. Per lungo tempo gli svedesi sono rimasti sempre fedeli alla loro linea di aspri sobillatori poco avvezzi ai compromessi, non cercando mai ansiosamente il successo e non facendosi mai troppo condizionare dall’ambiente circostante. Questo li ha portati a diventare un’istituzione e una garanzia di impegno e perseveranza, anche quando i cambi di formazione e il conseguente desiderio di variare la formula di partenza hanno iniziato ad influire sulla resa complessiva e la direzione della proposta. Con album come “Sound of the Republic” e “Veil of Ignorance” la band è riuscita a trovare un compromesso più che convincente tra il vecchio retaggio hardcore e sovrastrutture più moderne, ricorrendo alla melodia e a cadenze groovy più pronunciate senza soffocare troppo il suo tipico slancio. Nel 2015 tuttavia è arrivato “From the North”, disco che ha spostato la musica dei Raised Fist verso qualcosa di ancora più leggero e accessibile, fra ritmiche elementari, che dovrebbero portare a sentire l’esigenza di muoversi, e riff altrettanto essenziali, assemblati per parlare alla pancia dell’ascoltatore medio. Il tutto però trainato da una voce, quella di Alexander Hagman, oggettivamente incapace di adattarsi alle nuove velleità della formazione.
A quasi un lustro da quell’ultimo LP, ritroviamo il gruppo sulle stesse coordinate, con un album, “Anthems”, che svela i suoi propositi già dal titolo. Le invettive di Hagman sono veicolate attraverso canzoni che non sono mai state così semplici e ammiccanti, all’insegna di una sorta di moderno rock/metal da stadio, rigorosamente cadenzato, che sembra sempre attentissimo a risultare il più catchy e puerilmente inclusivo possibile (vedi il patetico testo del singolo “Anthem”). Una volta i Raised Fist non si sforzavano di suonare accessibili o ‘moderni’, anche perché spesso la modernità la contestavano. Il loro era un sound unico, alimentato da una credibilità e da un’efficacia date da un aperto furore polemico e dalla capacità di sintetizzare il suono perfetto per esprimere ardore e partecipazione. Oggi invece siamo al cospetto di una band profondamente cambiata, a livello di età, di elementi e di aspirazioni. “Anthems”, come il suo predecessore, musicalmente ci appare quasi come un disco modellato sull’operato degli ultimi In Flames, con in più un cantante che cerca goffamente di estrarre dei motivi orecchiabili da un timbro alla Tom Araya. Certamente alcuni brani arrivano anche a farsi ricordare per la rotondità del lavoro di chitarra e la semplicità delle strutture, ma, questa volta più che mai, alla lunga la formula risulta innocua, ripetitiva, kitsch, se non addirittura fastidiosa. Non si comprende in quale segmento di ‘mercato’ i Raised Fist vogliano ora posizionarsi, visto che senza dubbio non sono easy listening a sufficienza per ingraziarsi le masse, nè possono vantare quella genuinità e quell’impatto che potrebbero ancorarli alla loro vecchia scena. Affermare che queste scelte stilistiche avrebbero potuto essere più prudenti e incisive è dunque un eufemismo: con “Anthems” la band finisce in un limbo dove sembra quasi fare di tutto per mettere a nudo i propri limiti, tra un afflato melodico che non ha mai il potenziale da vera hit radiofonica e un cantato che, se sul pulito incespica di continuo (atroce il break centrale di “Seventh”), sullo screaming risulta inutilmente esasperato davanti a queste trame che vanno da tutt’altra parte. A fronte di tutto ciò, è difficile non definire “Anthems” il disco peggiore della carriera dei Raised Fist.