8.0
- Band: RAUNCHY
- Durata: 01:00:04
- Disponibile dal: 28/11/2014
- Etichetta:
- Massacre Records
- Distributore: Audioglobe
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In fondo, non è forse vero che l’attesa del piacere è parte del piacere stesso? Prendiamo spunto da questo aforisma, ripreso in tempi recenti da un celebre spot, per introdurre quello stato d’animo che, nel sesso come nella musica, ci permette di fantasticare su quello che sarà, a maggior ragione nel momento in cui la promessa con cui abbiamo appuntamento non è solita concedersi spesso, ma al contempo non delude mai le aspettative. E’ questo il caso dei danesi Raunchy, i quali, nonostante un curriculum invidiabile in ambito modern metal, non sembrano aver fatto breccia nel cuore del grande pubblico, dispensando con parsimonia uscite discografiche e apparizioni dal vivo, soprattutto negli ultimi anni. Digerite in fretta le molteplici novità – in ordine d’importanza: il cambio di cantante, il passaggio dalla dalla Lifeforce alla Massacre, e una copertina imbarazzante -, ci siamo avvicinati a questo nuovo “Vices. Virtues. Visions.” con un misto di curiosità, frutto di un’attesa lunga quattro anni, e di tranquillità, per effetto della fiducia pressoché incodizionata nei confronti del sestetto di Copenaghen. Maestri inconstratati nell’arte di fondere ritmiche metalliche e pattern elettronici, andando ben oltre quanto fatto da In Flames e Soilwork in tempi più o meno recenti, i Nostri confermo già dall’opener “Eyes Of A Storm”, caratterizata dalla familiare melodia danzereccia, di non aver perso lo smalto di un tempo, infilando anche in quest’occasione un filotto di brani da ‘tripla A’ (Adrenalina, Acceleratore, Autoradio). Particolarmente efficace in questo senso il lato A della tracklist, dove sono concentrati gli episodi più diretti come “Truth Taker”, “Digital Dreamer” e “The Castway Crown”, anche se manca quel chorus killer – o l’effetto sorpresa? – che aveva reso invincibili pezzi come “Phantoms” e “Warriors”. L’efficacissima “Anesthesia Throne” funge da ideale spartiacque, unendo al meglio le due anime del sestetto, traghettandoci verso una seconda metà del platter decisamente più sperimentale, in cui i Nostri si divertono a mischiare le carte in tavola, andando ad incrementare ulteriormente un minutaggio già abbastanza corposo. Per la verità, l’inizio affidato alla marcetta “Luxuria” non convince fino in fondo, per effetto di un andamento fin troppo poppeggiante, ma la successivà “I, Avarice” rimette le cose a posto, mettendo in mostra il lato più malinconico del nuovo singer e potendo vantare un pregevole solo di Flemming C. Lund, già chitarrista degli Arcane Order. Futuristiche note di xilofono introducono un altro pezzo ‘pallettone’ come “Frozen Heart”, preludio ai fuochi d’artificio affidati alla doppietta finale, in cui i Nostri allargano definitivamente i propri orizzonti, trasportandoci per un quarto d’ora verso una dimensione decisamente più rilassante, ma altrettanto stimolante, in cui trovano posto chitarre acustiche, arrangiamenti fiabeschi e, soprattutto, linee vocali mai così varie, di cui va riconosciuto il merito al nuovo entrato Mike Semensky. In conclusione, se da un lato l’energia di metà carriera si è leggermente affievolita – o, per meglio dire, consolidata in una formula ormai rodata -, dall’altro la maturità acquisita porta ha aperto degli orizzonti impensabili soltanto qualche anno fa, ma non per questo meno interessanti. Pochi vizi, tante virtù, e visioni futuristiche: bentornati Raunchy!