9.0
- Band: REPUGNANT
- Durata: 00:44:06
- Disponibile dal: 01/01/2006
- Etichetta:
- Soulseller Records
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Per parlare dei Repugnant e di “Epitome of Darkness”, loro unica prova sulla lunga distanza, occorre anzitutto fare una panoramica sul contesto che ne ha visto manifestarsi le gesta scellerate, il gusto per il rancido e il diabolico, l’intransigenza artistica ammantata da un velo di tenebre e sangue. Non perdiamo tempo, quindi, e proiettiamoci ai sobborghi innevati della Stoccolma del ‘98, dove un adolescente celatosi dietro lo pseudonimo di Mary Goore, dopo una breve esperienza nel progetto black metal Superior, decide di mettere la propria voce e la propria chitarra al servizio di un suono che recuperi con forza l’istinto e la degenerazione emanati da tutto il death e proto-death del lustro 1985-1990, in un’operazione a dir poco sprezzante e controcorrente rispetto a ciò che in quel momento va per la maggiore tra il pubblico e gli addetti ai lavori, troppo occupati a seguire i trend melo-death, nu metal e symphonic black per accorgersi di ciò che si agita lontano dai riflettori, fra le ombre del vero underground.
Un intento chiaro, perseguito con esaltazione e tenacia prettamente giovanili, e che una volta assemblata una line-up di coetanei trova presto sfogo in una doppietta di uscite (il demo “Spawn of Pure Malevolence” e l’EP “Hecatomb” del ’99) più che esemplificative sullo stile e le ambizioni di un gruppo destinato, senza saperlo, a scrivere una pagina di Storia importante.
È il 2002 quando i Repugnant, sotto la supervisione di un Tore Stjerna ancora lontano dall’affermarsi come produttore di Mayhem e Watain, si rinchiudono in studio per confezionare il loro debut album, durante delle sessioni di registrazione il cui coefficiente di caos e ferocia – col senno di poi – possiamo dire essersi depositato come un morbo sui solchi della tracklist, compendio di brani ripescati dai suddetti mini (oltre che dal successivo “Draped in Cerecloth”), di qualche inedito e di un rifacimento di “Another Vision” dei connazionali Morbid. Un nome, quest’ultimo, che si somma a quello di altri pionieri tra le fonti di ispirazione di un suono tanto frenetico quanto seducente, e che se da un lato sembra sempre sul punto di esplodere, pervaso da un’aggressività incontenibile, dall’altro si dimostra anche arrangiato con un gusto e un ingegno degni di una grande band.
In sostanza, è come se il quartetto scandinavo non si fosse limitato a consumare sul giradischi i vari exploit di Merciless, Morbid Angel, Necrovore e Possessed, decidendo poi di replicarne il contenuto, ma ne avesse compreso a fondo l’essenza, lo spirito indomabile, arrivando a confezionare un lavoro in grado di reggere il confronto con i classici del passato, alla maniera di certe opere di Kaamos, Dead Congregation e Cruciamentum. Una propulsione costante che, aizzata dallo screaming invasato di Mary Goore, evoca raptus omicidi e possessioni demoniache come se ci trovassimo in una vecchia pellicola horror/splatter, e nella quale le ritmiche – deraglianti e dinamicissime – rincorrono un guitar work che non lascia mai passare troppo tempo per avvitarsi su se stesso, regalare un nuovo cambio di tempo, vomitare un riff death/thrash irripetibile. Un modus operandi che, pur attingendo da un bacino di soluzioni 100% codificate e old-school, non rende semplice prevedere lo sviluppo e l’andamento dei singoli pezzi, con continui ‘plot twist’ a rilanciare l’ascolto e il suo equilibrio di assalti alla giugulare e atmosfere mortifere.
Metallo della morte che si ricollega ai primordi del genere con una freschezza e un’organicità sorprendenti, come se fosse stato effettivamente composto nel 1988 o giù di lì, in un’epoca dove i confini fra ciò che era black, death e thrash si confondevano in una nebbia velenosa e quando il Male, attirato dal richiamo di un “Seven Churches”, di un “Altars of Madness” o di un “The Awakening”, sperimentava per la prima volta simili codici espressivi.
A rendere ancora più leggendario “Epitome…” ci ha poi pensato la sua pubblicazione, con la band scioltasi nel 2004 senza averlo dato alla luce (si fa per dire…) e la Soulseller che, solo nel 2006, lo immetterà ufficialmente sul mercato, ricordando non poco la parabola dei Repulsion di “Horrified”.
A costo di essere ripetitivi, complici episodi diventati leggendari del calibro di “Hungry Are the Damned”, “Premature Burial” e “Voices of the Dead”, l’esordio dei Repugnant è nientemeno che un capolavoro; tre quarti d’ora di musica fondamentali per comprendere il riaffermarsi dell’estetica tradizionale nell’underground estremo degli ultimi dieci/quindici anni. Semplicemente seminale.