7.5
- Band: RIAH
- Durata: 00:45:55
- Disponibile dal: 10/01/2023
- Etichetta:
- Shove Records
- Voice Of The Unheard
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Ci sono dischi che più di altri necessitano di essere ascoltati a volumi elevati. Hanno bisogno di questo trattamento non per quanto calcano la mano in violenza, devianza, pesantezza, nient’affatto: è necessario proprio per il motivo diametralmente opposto. È il caso di “A Man And His Nature” dei Riah, o se preferite Ropes Inside A Hole, la versione estesa del loro nome. Una musica, la loro, che si muove dolcemente e con fare da equilibrista tra le propaggini smussate e gentili di post-rock e post-metal, con una grazia e levità che potrebbe essere facilmente scambiata per un eccesso di ossequio alle regole dei generi. La loro proposta si delinea infatti con affettata calma, accortezza perché vi sia una tensione superficiale ben percettibile e che a sua volta questa non venga rotta, non ci siano cesure evidenti e traumatiche a ondeggiamenti ciclici e rassicuranti; fasi di espansione del suono e generazione di vigore arrivano al termine di intrecci flebili e sinuosi, in preda a malinconiche estasi e riflessioni tormentate, sfocianti in rassegnazione, invece che in scatti di rabbia. Non è nella sperimentazione e nell’andare alla scoperta di nuove commistioni che va cercato il valore dei Riah, quanto nella capacità di esprimere un’emozionalità fragile e contorta in modo autentico e liberatorio, facendo dialogare strumenti metal e non e un’interpretazione vocale adatta alla situazione, neanche per pochi attimi in contrasto al clima ovattato creato dagli strumenti.
Per questo suo secondo album – in mezzo lo split assieme ai Postvorta – la formazione di origine bolognese ha cambiato in parte pelle e, complice la pandemia che ha costretto a modificare le metodiche di lavoro, si è avvalsa di alcuni ospiti per dare vita a “A Man And His Nature”. Inserimenti all’insegna del garbo e di sonorità di nobile fattura; sono assai delicati infatti i contributi del violinista argentino Hernan Paulitti, di Francesco Cellini al violoncello, William Sauvanne al sassofono e quelli di Mohammed Ashfarf alle tastiere. Infine, a mutare la natura del progetto da interamente strumentale a (parzialmente) cantato, Daniel Loefgren dei post-metaller svedesi Suffocate For Fuck Sake. Nel caso di Loefgren, dovrebbe trattarsi di un inserimento più stabile e il suo ruolo è pensato per non essere episodico all’interno dei Riah. L’aggiunta di una voce principale non è andata a mutare drasticamente l’involucro musicale, un po’ perché queste linee vocali sono pacate e poco invasive, un po’ perché alla band piace ancora lasciarsi andare in peregrinazioni strumentali prolungate, senza alcun vocalizzo a turbarne l’azione.
Al gruppo piace partire da malinconici arpeggiati, dondolarsi senza fretta in un confortevole minimalismo, prima di issarsi verso cattedrali sonore vibranti e ben rifinite, dalle sembianze scure ma non ottenebranti. Le contrapposizioni di forza e candore, ai primi ascolti, potrebbero apparire piuttosto usuali e conformi al pensiero post-rock più sfruttato; dando tempo al disco per carburare e farsi capire meglio, si possono apprezzare i tanti piccoli dettagli, i chiaroscuri condotti con nitidezza ma senza esagerare nell’enfasi, il comparire di synth notturni a intrufolarsi tra le progressioni chitarristiche, un tambureggiare di batteria eclettico e ben poco lineare. Fondamentale per i Riah la sensazione che, al di là delle parole utilizzate – a volte rade, a volte del tutto assenti, come durante “Others Are Gone. I Don’t Care” – ci sia una storia solida a cui aggrapparsi in ogni traccia, che si intenda svolgere un piccolo racconto e lo si faccia distillando le note con sottigliezza, indugiando, suggerendo senza rivelare tutto quello che si ha in mente. Ci sono momenti più intensi e roboanti a connettere i galleggiamenti in una dolce malinconia, strappi tipicamente metal punti di approdo per le lunghe riflessioni precedenti, oppure annunciazioni di torbidi pensieri, come nelle dense spire di “Overwhelmed”.
Per sensazioni evocate e metodo di costruzione dei brani, i Riah vanno spesso a ricordare gli australiani We Lost The Sea, formazione abilissima nel dire qualcosa di molto personale e riconoscibile pur non esibendo, a sentir bene, alcuna idea particolarmente staccata dalla concorrenza. Come loro, si sono resi protagonisti di un disco molto sentito, dal quale traspare un autentico amore per questo tipo di sonorità e la volontà di farne veicolo del proprio speciale sentire, non un semplice assemblaggio di frammenti musicali che suonano bene legati gli uni agli altri.