8.0
- Band: RIVAL SONS
- Durata: 00:39:38
- Disponibile dal: 02/06/2023
- Etichetta:
- Atlantic Records
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Tra i migliori esponenti della ventata di revival rock/blues espansasi a macchia d’olio nell’ultimo decennio, permeando il mondo hard rock con gradazioni metalliche assai variabili, i Rival Sons sono tra coloro che meglio hanno attecchito sul pubblico europeo, arrivando a vette di gradimento normalmente consentite solo ai gruppi ‘storici’. Approdati al settimo album con questo “Darkfighter” e un altro, “Lightbringer”, già previsto in uscita entro il 2023, Jay Buchanan e compagni sembrano lontani dall’esaurire la spinta creativa. Finora è difficile trovare qualcosa di fuori posto nel loro percorso, che per quanto non vada a reinventare nulla nel settore e si connoti per un approccio filologicamente vintage alla materia, esprime una naturalezza, un’autenticità e un’ispirazione da primi della classe. Quindi anche in “Darkfighter” non accade di doversi confrontare con perdita di motivazioni, stanchezza o semplicemente riciclo di idee. Sarà che la cultura musicale di questi ragazzi fattisi oramai uomini è sconfinata e sanno sempre dove pescare, come miscelare quanto contenuto nello sterminato patrimonio rock americano, creare connessioni tra i generi e far attecchire felicemente, nel puro rock’n’roll, pulsanti influssi soul e folk. Se dagli esordi di “Before The Fire” ad oggi non sono avvenute rivoluzioni nell’identità della band, il tocco strumentale e vocale sia quello, riconoscibile alle prime note, col tempo le suggestioni legate a una poetica confortevolmente cantautorale e intimista sono andate crescendo, giungendo probabilmente all’apice creativo con l’eccellente “Feral Roots”.
Dall’album di quattro anni fa si riparte allora per una tracklist imperniata, come di consueto, sul chitarrismo morbidamente ispido, multiforme ma rigorosamente settantiano di Scott Holiday e sulla magica vocalità di Buchanan, con i suoi richiami ad altri cantanti iconici dell’hard rock, pur mantenendo una sua inconfondibile personalità. Delicatezza, energia, garbo, feeling e toccante armonia brillano allora, di una luce soffusa ma che mai andrà spegnendosi, nell’opener “Mirrors”; spezzettata, semplice, serpeggia nelle orecchie flettendosi e ingrossandosi sotto i colpi della sei corde, ingentilita negli sprazzi di tastiere e chitarra acustica, riecheggiando in questo caso i primi Rush. È un crescendo sobrio, limpido, quello portato avanti dalla voce accorata di Buchanan, per un pezzo di apertura tanto classico nei connotati, quanto vincente negli effetti. Più scatenata e incalzante “Nobody Wants To Die”, canzone da intonare felici in concerto, un ritornello sprizzante pura vitalità rock’n’roll in un rosario di ritmi battenti e pastose escursioni blues: tutto semplice, diretto, inebriante. Con la terza traccia “Bird In Hand” i Rival Sons alzano il tiro, ricominciando a far attecchire, come in “Feral Roots”, un misto di paciosa ruralità, spruzzate di spiritualità gospel, groove zeppeliniano e arte del racconto, avvicinando l’operato del gruppo a quello dei grandi crooner americani. Su queste coordinate, ma dilatando i tempi e prendendola larga, si muove l’altrettanto suggestiva e dolcemente malinconica “Bright Light”. Elettrico e acustico fragorosamente si uniscono per una traccia dal sapore estaticamente contemplativo, da assorbire con compiacimento cercando di non perdersi neanche una nota.
Il fraseggiare ora delicato, ora solenne della chitarra contraddistingue “Rapture”, nella quale l’intervallarsi di pizzicate minime e la successiva ripresa di quota elettrica si fa ancora più netto, dandoci in pasto vibrazioni uniche, dimostrando, se ce ne fosse ancora bisogno, quanto si possa regalare emozioni formidabili e profonde tramite concetti musicali notissimi da decenni. In questa immersione nell’emozionalità più sentita e per nulla superficiale, sembra che i Rival Sons vogliano superarsi di canzone in canzone, aumentando vertiginosamente il tasso di pathos andando verso il finale di tracklist. Il trittico conclusivo infatti supera quanto sentito fino a quel momento, con un taglio lievemente più intristito a velare l’alchimia sonora.
Gli inserti acustici e le brusche ripartenze nel ritornello di “Guillotine” sono irresistibili ed è egualmente stupendo lo straripante solismo di Holiday nel medesimo brano; “Horses Breath” scalpita di drammaticità, riemergono soavi e onirici i sintetizzatori, indorando di lieve psichedelia una cavalcata conturbante, sospesa nel tempo, che sa di esplorazione dell’ovest selvaggio, di tempi eroici e liberi; infine “Darkside”, quasi integralmente acustica, sussurrata, dolceamara e tracimante passionalità, accesa anche in questo caso dalle vampate soliste di Holiday.
Coi Rival Sons non si va incontro a sgradite sorprese, si hanno soltanto granitiche certezze, un concentrato del miglior rock’n’roll in circolazione: “Darkfighter” rinnova felicemente tutto quanto di bello pensavamo di loro.