8.5
- Band: RIVAL SONS
- Durata: 00:33:33
- Disponibile dal: 20/10/2023
- Etichetta:
- Atlantic Records
Cosa resta ancora da dire sui Rival Sons, se non celebrarne l’inventiva, il calore col quale suonano, la sensazione di pace di sensi che ci assale ogni qual volta ascoltiamo qualche loro nuova canzone? La macchina hard rock di Jay Buchanan e Scott Holiday non accenna a dare segni di inceppamento e in questo 2023 non solo non lascia all’asciutto i suoi estimatori, ma addirittura raddoppia, dandoci in pasto il secondo album dell’anno, dopo l’eccellente “Darkfighter” uscito a giugno.
In altri tempi probabilmente ci saremmo trovati di fronte a una singola pubblicazione, data la relativa omogeneità stilistica dei due lavori, provenienti dalle medesime sessioni di registrazione; un punto sul quale ci pare inutile stare a ragionare oltre, addentrandoci invece nei contenuti di questo nuovo capitolo di morbido hard rock venato di blues e soul, oltre a un pizzico di folk/crooning di chiare stimmate americane.
Il gemello di “Darkfighter” riparte esattamente da dove quest’ultimo era terminato, facendo germinare facilmente le medesime impressioni suscitate dal disco uscito solo qualche mese fa.
Per quanto concerne la divisione in due distinti capitoli, non ci sono differenze enormi, anche se in “Lightbringer” prendono il sopravvento in diverse occasioni le trame acustiche, ancora più centrali e determinanti per affrescare il mood generale di questo nuovo capitolo discografico. Mentre, e questo è un dato comune con la precedente uscita, continuano ad avere ampio spazio di manovra e rilevanza le tastiere, intensificando i rimandi al prog settantiano, pur se questa influenza compare solo a intermittenza nel corso delle tracce. D’altronde, non si ascoltano i Rival Sons per farsi spiazzare da qualche sorprendente esperimento; al contrario, ci si aspetta una allettante, brillante ed energica rivisitazione dell’hard rock, sapendo che molto difficilmente ci assalirà un fastidioso alone di già sentito, di grigia abitudine. Ed in effetti, tenendo fede ai loro alti standard, anche stavolta c’è solo da farsi incantare e cullare beatamente nelle calde note che i quattro disegnano con ineffabile facilità, donando magia a una musica che, stando agli inguaribili nostalgici, dovrebbe oramai aver detto tutto da tempo.
Almeno a giudizio di chi scrive, gli ultimi album sono andati addirittura in crescendo, qualitativamente, proprio quando i bagliori sommessi del soul e del blues, oltre al tono via via più cantautorale della voce di Buchanan, si sono ritagliati spazi ancora più ampi tra le zompettanti scariche hard rock. Detto questo, i Rival Sons si permettono una – relativa – sorpresa con “Darkfighter” in apertura. Nove minuti avvolgenti, che partono tiepidi e paciosi, come se ci trovassimo di fronte a una rilettura integralmente acustica del loro suono, con la voce di Buchanan ammorbidita al massimo e un tono rilassato che sfocia nel fiabesco. Il brano va quindi a esplodere in un vivace dualismo elettrico/acustico: si intervallano momenti in cui la chitarra elettrica è raddoppiata da un’acustica in salsa country, e altri di sospeso struggimento, con la sola acustica e la voce a comparire, oppure Holiday a partire per la tangente brioso, intrecciandosi alle tastiere. Magico il finale, con le tastiere a volare nell’onirico e gli strumenti a distendersi liberi e felici.
Un caldo, malinconico crooning si impossessa della tranquilla “Redemption”, giocata su pochi accordi e moderati rilanci all’altezza del refrain; anche qua l’interazione di elettrico e acustico arroventa l’atmosfera col passare dei minuti, dando anche respiro corale e pienezza di suono, caratteristiche fondamentali nei Rival Sons degli ultimi dischi.
In canzoni come “Mercy” e “Before The Fire” si possono cogliere innumerevoli dettagli che rendono i Rival Sons qualcosa di differente da altre compagini hard rock contemporanee: anche nel lavoro di batteria e basso, nettamente meno appariscenti del chitarrismo raffinato e ricco di variazioni di Holiday, si percepisce un tocco distintivo, una personalità netta ma per nulla invadente. Mentre se si sentisse l’assenza di rock’n’roll adrenalinico, delle urla ‘plantiane’ di Buchanan, basta attendere “Sweet Life”, coi suoi secchi cambi di tempo, spiazzanti variazioni di tastiera e un ritornello corale dal portentoso effetto bubble-gum.
La chiusura è sui toni raccolti e al lume di candela di “Mosaic”, per certi versi ancora più toccante della title-track. Una semi-ballad struggente, costruita attorno a un’atmosfera lieve e minuziose modulazioni chitarristiche, la voce di Buchanan virata verso la tenerezza e l’amorevole e un ritornello così disarmante nella sua semplicità che, in altri tempi, avrebbe finito per conquistare ascoltatori anche molto lontani dal rock classico.
In un’epoca volta a cercare l’impatto tronfio e bombastico, o incline all’intellettualismo intransigente, i Rival Sons praticano un altro sport: si concedono il lusso di adornare la musica di minuziosi particolari, avvalersi di una distorsione naturale e autentica, vintage ma non vecchia; e ancora, scegliere suoni cristallini, evidenziare perfettamente l’operato di ogni strumento, dipingere melodie preziose e durevoli. A tessere assieme tutte queste qualità, l’arte del songwriting, qualcosa che in pochi sanno maneggiare come i musicisti originari di Long Beach. “Lightbringer” è un’altra gemma preziosa, l’ennesimo capitolo di una storia hard rock tra le più entusiasmanti in circolazione.