8.0
- Band: ROLO TOMASSI
- Durata: 00:51:20
- Disponibile dal: 02/03/2018
- Etichetta:
- Holy Roar Records
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“Unafraid of the aftermath”, scandisce angelica Eva Spence nel refrain di “Aftermath”, la sognante prima canzone di “Time Will Die And Love Will Bury It”. È un avvertimento preciso: i Rolo Tomassi non hanno paura di rischiare, i chiaroscuri e i cambi di direzione non li intimoriscono, la ricchezza di atmosfere e gli accostamenti più improbabili sono il loro pane, non vogliono limitarsi per alcun motivo. Così, passato il rasserenato dreampop di apertura, un rintoccare cupo di batteria e chitarre introduce al camaleonte imbizzarrito di “Rituals”, svelando le mille facce di un gruppo onnivoro, famelico di emozioni, azione, vitalità, capace di sorvolare rapido paesaggi di distruzione e immortalare pochi istanti dopo fotogrammi di paradiso. Piede perno nell’hardcore, ambiente di partenza cui non si sfugge né si rinnega, il gruppo inglese dei fratelli Spence è arrivato con questo quinto album a una nuova dimensione, che sopravanza i già ottimi risultati raggiunti con il precedente “Grievances”. Unendo un dedalo di puntini che vanno dal progressive, al jazz, all’elettronica, contemplano rimandi alla musica classica, si sporcano nel grind, assorbono la torbidezza del post-metal più incostante, i Rolo Tomassi offrono un campionario di canzoni accomunate da un senso di costante e intransigente bellezza.
La prova al microfono della Spence non può che essere il faro del caleidoscopico agire della formazione. Quando impegnata nel cantato pulito, la minuta singer frequenta tonalità pop, mettendo in luce un timbro giovane, aggraziato, depurato di preoccupazioni, avvinto nella propria beatitudine; basta poco però perché si sfrangi e si trasformi in un orco crudele, rivaleggiando quanto a ruvidezza e isteria con altre mirabili vocalist come Caro Tanghe, Karyn Crisis e Julie Christmas. Rispetto alle cantanti citate, la Spence suona pure più gutturale e malata, grondando un’irascibilità difficile da placare. Gli interventi sono sempre puntuali e aderenti al mood dei pezzi, che possono passare dalla furia labirintica dei The Dillinger Escape Plan – gli stacchi dispari e le torsioni jazzate hanno molto del combo di Ben Weinman – a soffici nenie memori dei My Bloody Valentine. Le chitarre mostrano un’elasticità di vedute smisurata, che prende spunti dal metal estremo in molte sue derivazioni e le ‘taglia’ di una sensibilità emotiva a volte nichilista, cinica, in altri casi languida, malinconica, oppure semplicemente estatica, portando ad ambientazioni irreali per lo stato di volatile quiete dove siamo immersi.
Alle tastiere dell’altro Spence, James, è deputato il compito di contrastare e bilanciare gli strappi e gli addensamenti delle chitarre. Algidi sintetizzatori e ricami di piano rischiarano partiture altrimenti assai cruente; in brani come “The Hollow Hour” lo sdoppiamento di personalità, il contrastare di fragilità, languidezza, foga e magniloquenza si dispiega tra dolorose invettive e attimi di irreale calma, che si alternano con eccezionale equilibrismo. Le formule coniuganti urgenza e intricatezza segnalano un’eccellente padronanza della materia ‘core’ più turbolenta, ma è quando esse si mescolano all’intimismo, alla volontà di far parlare l’anima con un linguaggio personale e d’avanguardia, che si arriva a momenti veramente eclatanti. I synth di “A Flood Of Light” (se vogliamo, brano-manifesto del disco) pulsano in spazi siderali, privi di calore, eppure nel donare un senso di lontananza, solitudine, legati alla voce della Spence fanno battere il cuore come poche altre cose uscite quest’anno. La straripante dolcezza di “Risen”, promanata da poche candide note, chiude le porte di un’esperienza sensoriale rara, imprescindibile per chi crede che nella musica si possa ancora sperimentare e creare qualcosa di stupefacente e duraturo.