7.5
- Band: ROLO TOMASSI
- Durata: 00:48:14
- Disponibile dal: 04/02/2022
- Etichetta:
- MNRK Heavy
Spotify:
Apple Music:
Non era semplice per i Rolo Tomassi confrontarsi col proprio recente passato e cercare di bissare, o almeno non far rimpiangere, quel gioiello di “Time Will Die And Love Will Bury It”. Approdati con questo “Where Myth Becomes Memory” al sesto album, oltre ad una cospicua discografia minore fatta di numerosi EP e singoli, la compagine dei fratelli Spence non la si può più definire una realtà ‘emergente’. Anzi, data la velocità e la voracità con la quale hanno vissuto finora la loro esperienza artistica, i Rolo Tomassi sono una formazione guida nel bollente, variegato, calderone delle sonorità metalcore evolute. “Where Myth Becomes Memory” rappresenta l’ultimo tassello di una trilogia – definitiva ‘non intenzionale’ dalla band – iniziata con “Grievances” nel 2015 e va a confermare quegli intenti ambiziosi fioriti col quarto album e andati a consolidarsi con “Time Will Die…”. Se nelle prime prove in studio gli inglesi, accanto a un’indole irrequieta di stampo post-hardcore, andavano già a imbastire interessanti contaminazioni e un gusto eccentrico per le ambivalenze dolcezza/brutalità, insistendo agli inizi su arrangiamenti di tastiera vagamente chiptune, oggi la personalità è meno turbolenta e disordinata.
I Rolo Tomassi hanno accresciuto i dosaggi di dreampop, allargando il campo della sperimentazione nell’ambito di atmosfere sognanti e dilatate, un po’ per accentuare i contrasti con l’anima hardcore, fattasi via via sempre più metallizzata, un po’ per concedersi a un intimismo per il quale non è detto vi sia sempre un torbido contraltare. Approcciarsi al nuovo disco avendo ancora nelle orecchie quanto combinato con “Time Will Die…” potrebbe rivelarsi controproducente: quella pubblicazione rappresentava probabilmente lo zenith nella creatività del gruppo, un punto di approdo altissimo, un Everest dopo il quale ci si trova quasi smarriti, interrogandosi se sia possibile andare oltre. “Where Myth Becomes Memory”, ai primi ascolti, potrebbe apparire come una pubblicazione più ‘normale’, se vogliamo: non ha gli svolazzi magniloquenti del predecessore, quei crescendo irresistibili, quella magica ariosità che, mettendo assieme rabbia smodata, progressive, cura del suono maniacale e un senso della melodia da pop band sulla cresta dell’onda, portava a una serie di hit estreme una in fila all’altra. Il nuovo full-length ha modi meno immediati e coinvolgenti di miscelare candore e ferocia, addirittura li fa entrare in correlazione con minor frequenza, tenendo in alcune tracce in disparte l’anima più irruenta e irrazionale della formazione. Ne viene così fuori un album dalla natura ancora una volta camaleontica, assemblato – ci sembra – per non avere un’altalena emotiva così magnetica come per i due album precedenti.
I Rolo Tomassi annettono a questo giro influenze di certo progressive/djent, nei suoni e nella compressione di talune partiture heavy, aumentando le incursioni di soli pianoforte e voce, come nel raccolto finale di “Mutual Ruin”. Gli imponderabili scatti mathcore vanno a ridursi considerevolmente, bilanciati appunto da tempi medi pesanti e più lineari di quello che ci si aspetterebbe. L’ampiezza dei registri sonori rimane notevole, gli estremi si allargano, favorendo sia l’emergere di momenti schiaccianti (la massacrante prima parte di “Drip”) , sia paesaggi di inscalfibile pace (il melodicissimo singolo “Closer”). Eva Spence (ora coniugata Korman, il cantante degli altrettanto folli e sperimentali The Number Twelve Looks Like You) si dimostra nuovamente un’interprete di prim’ordine, sia nel favolistico ed elastico pulito, sia in urla agghiaccianti e di impressionante emotività. Anche l’altro fulcro della formazione, il fratello James a tastiere e seconda voce, non scende dagli alri livelli che ci si attende da lui: le punteggiature pianistiche toccano il cuore, coi sintetizzatori si inventa tappeti di suoni non per forza chissà quanto avventurosi, ma ideali per variare le atmosfere e passare attraverso una vasta gamma di colori e sensazioni. Può sicuramente spiazzare un gioiello minimale come “Stumbling”, un frugale dialogo tra poche note di piano e vocalizzi sussurrati e in generale, come non essere del tutto digeribile il gioco di contrapposizioni, che non porta a stupefazione immediata come poteva accadere nelle prove recenti del combo inglese. Vi sono più sottigliezze in “Where Myth Becomes Memory” e un desiderio palpabile di ridefinire ancora una volta il proprio linguaggio, guardare oltre e tuffarsi a capofitto in un’altra dimensione. Pur senza ritoccare o confermare in pieno i traguardi di “Time Will Die…”, crediamo che anche per questo sesto disco sia difficile rimanere delusi.