6.5
- Band: ROTTING CHRIST
- Durata: 00:46:05
- Disponibile dal: 24/05/2024
- Etichetta:
- Season Of Mist
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Trentacinque anni di carriera e, è il caso di dirlo, sentirli tutti: i Rotting Christ hanno attraversato innumerevoli decenni portando orgogliosamente lo stendardo ellenico della fiamma più nera, eppure da qualche anno a questa parte i segni di una certa stanchezza di fondo appaiono più evidenti, soprattutto sul suo lìder màximo Sakis Tolis.
Un ciclo di nuovi album (solisti e non) e tour continui per tutto il mondo sono sicuramente segno di una lena e dedizione encomiabili, eppure hanno un proprio peso specifico nell’economia di energie di un musicista; e se “Rituals” prima, e soprattutto “The Heretics” poi ne mostravano purtroppo l’evidenza, questo nuovo “ΠΡΟ ΧΡΙΣΤΟΥ” – sesto disco a suggellare un’intesa duratura con la francese Season of Mist – sicuramente non risolleva il panorama generale del gruppo greco, ma almeno sembra leggermente meno ‘appannato’ del suo predecessore.
Nell’analizzare i tre quarti d’ora di musica, appare sempre più evidente che, stanchezza o meno, i Rotting Christ abbiano coscientemente scelto di spostare, con gli anni, il proprio modo di intendere e suonare black metal in una direzione sempre più ‘cinematografica’ ed epicheggiante, relegando quanto rimane loro in termini di turpe, sulfurea virulenza luciferina old-school alle celebrazioni di carriera.
Questo corso, che in prospettiva possiamo vedere come prenda il via almeno da “Aealo” in poi, porta con sè una maggiore pulizia e bombasticità nella produzione e nei suoni: dalla crepuscolare “The Aposthate”, con il proprio incedere litanico, cadenzato e i cori a soppalcare un muro compatto di chitarre, basso e batteria, fino alla finale “Saoirse”, ciascuno dei dieci pezzi interpreta, nelle intenzioni, la gloriosa potenza di re e regni pagani prima dell’avvento del dominio cristiano (il titolo stesso dell’album, tradotto, significa proprio “prima di Cristo”); gesta e ideali del passato vengono quindi celebrati con gran profluvio di riff muscolari – ed il cui focus è più su compattezza che velocità – e pattern di batteria belligeranti, curati da un Themis Tolis in questo senso sempre sul pezzo, magari talvolta affiancati da episodi, come “Like Father Like Son” meno da ‘pugni sul petto’ e più figli di quanto prodotto, nel bene e nel male, da Sakis in versione solista.
Anche il cantato si attesta sempre più su tonalità baritonali (quando non declamatorie) riducendo al minimo indispensabile lo screaming – e se pensiamo a quanto suonano live i nostri possiamo ben immaginare come anche questo, oltre ai momenti ‘da battimani e cori da stadio’, possa essere visto in prospettiva di quell’economia di risorse di cui si parlava prima, senza tenere da conto, in questo frangente, dell’apporto/supporto live di Kostas Heliotis (basso) e Kostis Foukarakis (seconda chitarra).
Le melodie, ovviamente, sono sempre presenti, ma anch’esse appaiono rallentate e più fosche, in un tentativo forse di ripescare alcune suggestioni (“The Farewell”) dalla cosiddetta ‘fase gotica’ della loro carriera, riportando alcune fragranze di “Sleep Of Angels” o “A Dead Poem” senza però riuscirne a replicare l’intensità o l’ispirazione, essendo comunque quei dischi figli di un determinato periodo storico per la musica metal. Ad affiancare queste, troviamo anche il gusto melodico più radicato nella terra d’origine dei nostri: in particolare, vi invitiamo ad ascoltare “Pix Lax Dax”, che replica il refrain di “The Aposthate” filtrandolo con i sentori etnici che resero a suo tempo “Aealo” un gioiellino, oppure “The Sixth Day”, in cui ritroviamo invece delle soluzioni più vicine (ma ovviamente non eguagliate) all’altrettanto bello “Theogonia”.
E se “La Lettera Del Diavolo” cerca la drammaticità di Diamanda Galas, risultando forse il pezzo più particolare del disco, “Pretty World, Pretty Dies” invece ricade nel baratro dell’autocitazionismo riciclatorio di riff e assoli che aveva infestato i precedenti due lavori del combo greco, forse qui non così evidente ma comunque presente.
In conclusione, se ci chiedete se questo disco è bello o meno, la nostra risposta è: se avete conosciuto o apprezzato i Rotting Christ per come sono diventati in questi ultimi dieci anni, probabilmente “ΠΡΟ ΧΡΙΣΤΟΥ” vi piacerà come “Κατά τον δαίμονα εαυτού”, quindi aggiungete pure mezzo voto a quello in calce.
Se viceversa questa ultima, lunga fase non vi ha colpito, tornate ad ascoltare pure “Non Serviam”, “Thy Mighty Contract” o “Thriarchy Of The Lost Lovers” se proprio avete voglia di Rotting Christ (oppure volgetevi verso la sponda Varathron del settore per musica meno datata): sicuramente erano più lerci di suono e essenziali nella sostanza, ma è in essi che vediamo la piena realizzazione di quella mordace blasfemia contenuta nel nome che li ha resi grandi – qui davvero molto, molto diluita, quando non assente del tutto.