8.5
- Band: ROTTING CHRIST
- Durata: 00:47:53
- Disponibile dal: 10/10/1994
- Etichetta:
- Unisound Records
Spotify:
Apple Music:
‘Da tempo hai spezzato il tuo giogo, rotto le tue catene e hai detto: ‘Io non ti servirò’’. ‘Non Serviam’, in latino. E dall’estremo rifiuto di Lucifero a Dio prende nome il secondo full-length dei Rotting Christ. Le premesse, già dal titolo, tracciano una linea chiara e creano un’aspettativa di un certo livello. Probabilmente, dopo questo disco, i fratelli Tolis iniziarono un lento e costante cambiamento, che iniziò con la dipartita di Magus Wampyr Daoloth (tastierista qua e nel precedente “Thy Mighty Contract”). Sicuramente, col successivo “Triarchy Of The Lost Lovers”, i greci, approdando su Century Media, uscirono in qualche modo dal circuito più underground che fu, per quasi dieci anni, la loro dimensione ideale. Ma qua, in “Non Serviam”, siamo ancora nel black metal più duro e primordiale e lo sentiamo subito, da “The Fifth Illusion”, con un riffing gelido, una batteria immutata per quasi tutto il pezzo, le tastiere che paiono un lamento agonizzante e la voce di Sakis a dominare il tutto. Si rallenta per poi ripartire, mentre lo scream vomita blasfemo nel microfono tutta la rabbia primordiale dei quattro di Atene. Si prosegue ed un inizio midtempo ed un cantato più sofferto ci introducono a “Wolfera The Jackal”, uno di quei pezzi che restano subito in mente e che dimostrano la grandezza di una band, con il lungo assolo di Sakis che culmina in una ripartenza velocissima. Ancora una volta sono la chitarra e la tastiera, perfettamente intrecciate, a dare il via alla terza traccia, la title track. Difficile descrivere un pezzo dalla struttura così semplice e potente, uno dei migliori pezzi black metal scritti in quegli anni (stiamo parlando di un disco del 1994): tutto trasuda quel tipico sentimento notturno, satanico, elitario ed underground caratteristico delle più grandi band della seconda ondata black metal. Le sensazioni cambiano ancora con “Mortality Of A Dark Age”, dove sia il riffing che il cantato ricordano tantissimo la disperata rabbia dei Katatonia di “Dance Of December Souls”, mostrando i Rotting Christ come una formazione dalle mille sfaccettature, capace di esprimere sentimenti differenti e di creare melodie mai banali o derivative, assestando il tiro su un midtempo cupo e rabbioso, che esplode verso metà pezzo per un breve momento, ripiombando in tempi lenti sottolineati dalle tastiere fino all’apoteosi finale in cui il gruppo esaspera il cambio tra ritmi violentissimi e altri pacati. Così si chiude il primo lato. Giriamo il vinile e veniamo subito assaliti da “Where Mortals Have No Pride”. Il cantato di Sakis (ancora sotto il warname di Necromayhem) diventa più crudele, le melodie continuano ad esprimere un misto di disprezzo e gelida determinazione, restando sempre evocative, un tratto distintivo della band greca, in grado da sempre di mischiare epicità e glaciale distruzione nel suo songwriting; la tastiera irrompe prepotente, lasciata sola a sottolineare la desolazione cosmica ed abissale; quando gli altri strumenti rientrano, il cantato di Sakis è ancora più straziante e crudele, fino all’assolo intenso e struggente, quasi malinconico. La successiva “Fethroesphoria” è una strumentale eseguita dal solo Daoloth, una tetra melodia accompagnata da effetti e dissonanze che sfocia nei tempi ancora una volta lenti di “Mephesis Of Black Crystal”. Le keyboards hanno un ruolo importante nel pezzo, dando un senso di gelo siderale che crea uno splendido contrappunto alla ruvidità della voce e delle chitarre. Vale la pena spendere qualche parola sul riffing tipico dei Rotting Christ, che qui, forse per la prima volta, si palesa in modo evidente: il background è tipicamente death metal, ma pennate e melodie richiamano in modo evidente la scena black; il cantato è – a tratti – un vero e proprio scream graffiante, nel solco della tipica tradizione scandinava. Anche l’uso dei tasti è sapiente: riempie frequenze, si insinua negli interstizi sonori con melodie sinistre e disturbanti, rendendo il ruolo di Daoloth sommesso ma fondamentale per il feeling complessivo del disco. E’ il turno di “Ice Shaped God”, che si rivela un pezzo dalla furia primordiale e oppressiva: la batteria sfiora il blastbeat più volte e gli stop-and-go rivelano ancora l’eredità più death metal dei Rotting Christ, pur ancorandosi a sonorità ormai completamente votate al metallo nero. Ormai è chiara la struttura che, con ammirevole continuità, gli ateniesi tengono per tutto il disco: semplice solo ad un’analisi superficiale, in realtà tutto è costruito ad arte per trasmettere sensazioni di rabbia e ferocia, sensazioni acuite dai momenti più lenti o introspettivi. Ci avviamo alla conclusione con “Saturn Unlock Avey’s Son”: l’inizio è, ancora una volta, un midtempo, mentre Sakis mescola nel testo antiche tradizioni della mitologia greca (e non solo) a un puro odio blasfemo; poi il tempo cambia, insieme al riffing: la pennata della chitarra diventa quella tipicamente black metal, la velocità colpisce come un fiume in piena, in un crescendo continuo che prende forza dalle tastiere e dalle backing vocals del ‘solito’ Daoloth, mentre Sakis guida feroce e determinato il pezzo (e il disco) alla sua conclusione. “Non Serviam”, insieme al precedente “Thy Mighty Contract” e al successivo “Triarchy Of The Lost Lovers”, segna la svolta e la maturazione dei Rotting Christ, il passaggio dal grezzo (per quanto seminale) death/grind degli inizi ad un black metal sempre più compiuto, in un’evoluzione che non vedrà mai fermarsi i fratelli Tolis, virando a un gothic estremo, fino al loro odierno stile, talmente unico e personale da essere difficilmente etichettabile, ma senza mai rinunciare all’oltranzismo sonoro più duro e blasfemo, sempre unito a melodie evocative a tratti lugubri e a tratti rabbiose e incontenibili. Non c’è dubbio che i Rotting Christ siano una delle migliori band estreme in circolazione (ormai da trent’anni): tenaci, fieri e indomiti, oscuri paladini di un sound che li ha portati dai putridi abissi dell’underground al posto che ora gli spetta di diritto. Un gruppo che da “Satanas Tedeum” a “Rituals” ha saputo mantenere inalterata la sua natura, raffinandosi, quando era il caso, colpendo duro quando voleva far male e producendo sempre lavori di ottima caratura.
Breve nota a margine: all’epoca si discusse molto sulla batteria e sul fatto che fosse o meno una drum machine: alcune versioni riportano Sauron (cioè Themis Tolis) in line-up, altre no, ma esistono talmente tante ristampe più o meno ufficiali da rendere difficile comprendere quale sia la verità; sulla versione che abbiamo usato per questa recensione (vinile Unisound, stampa 1994) la foto ritrae quattro membri: Sakis e Themis Tolis, Magus Wampyr Daoloth e Mutilator.