7.0
- Band: ROTTING CHRIST
- Durata: 00:17:12
- Disponibile dal: 10/1989
Ottobre 1989. In tutti i circuiti metal di tape-trading comincia a diffondersi un nome che è di per sé un manifesto d’intenti: quello dei Rotting Christ, trio ateniese dedito ad un primordiale black metal senza compromessi e senza disciplina.
I tre in questione sono due fratelli, Sakis e Temis Tolis, che insieme ad un compagno d’infanzia, Jim Mutilator, rimangono folgorati a metà degli anni Ottanta dal Verbo del metal predicato da Venom, Bathory e Iron Maiden al punto da volerlo seguire – letteralmente – ad ogni costo, a qualsiasi condizione. Cresciuti con ben pochi divieti in una Grecia da poco uscita dalla cosiddetta ‘dittatura dei colonnelli’, i tre inarrestabili scelgono di associarsi alla crescente ondata di giacche di pelle, maglie terrificanti e capelli lunghi che il governo tenta con ogni mezzo più o meno violento di liquidare. Con l’indole punx che martella il sangue degli adolescenti, i Nostri entrano nei circuiti concertistici della capitale e, una volta avuti sottomano degli strumenti da imbracciare, rilasciano inizialmente sotto il moniker Black Church un paio di demo tutti all’insegna del grindcore più slabbrato e riottoso. Poi però, dopo poco tempo, l’interesse per l’occulto e la fascinazione per l’operato di Lucifero hanno la meglio su Jim e Sakis, che traghettano la loro neonata creatura sul terreno impervio e annerito del black metal; cambiano il nome in Rotting Christ e, dopo qualche uscita ancora di ambito grind, reinterpretano i dettami di un genere che di lì a poco sarebbe stato codificato dagli ‘amici di penna’ Mayhem ed affini.
Forse proprio per l’atipica provenienza geografica ed il nome d’immediata bestemmia, “Satanas Tedeum” corre rapido nelle reti del passaparola europeo (e non solo): la produzione farraginosa (‘merito’ del produttore che li seguì al Mini Farm Studio, totalmente digiuno di talune declinazioni sonore estreme), il growl insieme cavernoso ed aspirato, i riff assassini e la batteria pestata con ferina violenza, l’utilizzo pionieristico delle tastiere in taluni punti sono alcuni degli ingredienti che colpiscono gli ascoltatori come staffilate nelle orecchie. In soli quindici minuti, i Rotting Christ si presentano al mondo senza troppi fronzoli, lasciando a bocca aperta quegli stessi musicisti che avevano contribuito a creare la congrega occulta del black metal: semplicemente suonando veloci ed in un certo modo melodici allo stesso tempo, arrabbiati e così adorabilmente blasfemi fino al midollo, con quella tipica violenza sanguigna mediterranea a dare il vero stacco rispetto a tutto quello che si era sentito fino a quel momento.
Le canzoni sono brevi come latrati, un incredibile mix di atmosfere sulfuree (“Feast Of The Great Whore”) e brutalità (la successiva “The Nereid Of Esgalduin”), eppure di lì a poco diventeranno iconiche: “Feast Of The Grand Whore” e “The Hills Of Crucifixion”, insieme con la famosissima incisione di Lucifero che divora Giuda (portata in auge dallo stampatore di sedicesimo secolo Bernandino Stagnino) che compare in copertina sono tutt’ora considerate le pietre di volta di tutta una carriera.
La strada verso nuovi lidi è aperta, e dietro i pionieri Rotting Christ cominciano a seguirli altri gruppi, in cui spesso militano (anche di sfuggita) ora Sakis ed ora Jim, band pronte a sperimentare e digrignare gli strumenti in un maelstrom nero: Varathron, Macabre Omen, Necromantia, Kawir, Flames, Thou Art Lord sono solo alcuni dei principali esponenti di quella scena ellenica il cui primo, infernale vagito è “Satanas Tedeum”.