6.5
- Band: ROTTING CHRIST
- Durata: 00:43:39
- Disponibile dal: 15/02/2019
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
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Trent’anni di onorata carriera all’insegna della blasfemia: tanto lunga è la strada che i Rotting Christ hanno percorso, e con l’inizio di una nuova decade arriva “The Heretics”, continuando ancora una volta l’oramai collaudato ciclo triennale di album-tour-album. Figlio ancora una volta del duraturo e felice (per ora) connubio con la francese Season Of Mist, la nuova release dei greci prosegue il solco creato dagli ultimi album: cori salmodianti, sound cadenzato, liriche esoteriche (meglio se in lingue antiche o straniere), urla, tanta atmosfera. Troppa atmosfera. Una coltre fumogena che copre una carenza di idee prima ben celata, ora palese: pochi riff (alcuni dei quali rimescolati dai passati quattro album), molta enfasi su un comparto ritmico vigorosissimo – a cura della premiata ditta Themis Tolis-Vangelis Karzis – ma un po’ monocorde (“I Believe”), assenza di una certa qual verve black metal, sono solo alcuni degli elementi che rendono l’album un po’ zoppicante all’ascolto. Ci teniamo a precisarlo: “The Heretics” non è un album brutto; complice anche una produzione ed un missaggio (marchiati ancora una volta George Emmanuel, secondo giovane chitarrista del gruppo nei propri Pentagram Studios/Jens Borgen dei Fascination Street Studios svedesi, sotto la supervisione di Sakis) tra i migliori mai avuti, il disco si presenta egregiamente; se avete adorato i precedenti “Rituals” e “Κατά τον δαίμονα εαυτού” probabilmente l’amore sarà istantaneo anche stavolta, visto in aggiunta il continuo spaziare nell’occultismo letterario di mezzo mondo (Zoroastrismo, citazioni Shakespeariane, omaggi a Poe e Milton). I brani sono pensati anche per trascinare orde di fanatici nell’estasi bellica dei live che i quattro greci riescono sempre a creare: dall’intro “In The Name Of God” a “Dies Irae”, minacciosa e martellante come i tamburi dell’Apocalisse, il nuovo album se immaginato riproposto dal vivo è una bomba pronta a detonare. Eppure, forse proprio gli eccessi di cori, spoken words e percussioni densissime restituiscono l’idea di un album che non decolla, perennemente in attesa di un guizzo che – ahinoi – non arriva mai in maniera risolutiva.
Dopo più di dieci anni di leadership incontrastata e tour infiniti, il buon Sakis Tolis è normale soccomba ad un po’ di stanchezza e carenza di fantasia: ecco allora il comparto ausiliario degli ospiti – dalla litania sommessa di Ashmedi dei Melechesh sulla cupa “The Voice Of The Universe” al timbro da Pizia di Irina Zybina, voce dei russi Грай in “Vetry Zlye”- a sorreggere i (sempre più) rauchi latrati del Nostro; posto d’onore è riservato a Dayal Patterson (fondatore della zine “Cult Never Dies” e co-autore insieme al maggiore dei fratelli Tolis della biografia del gruppo, “Non Serviam”), cui spetta il compito di recitare estratti di Milton su “Heaven And Hell Of Fire” e di Voltaire in “Fire God And Fear” (“Fire Death And Fear” è solo di nove anni prima, parlando di poca fantasia), tra le canzoni migliori di questo capitolo.
Il disco si conclude con “The Raven”, che tra strofe dell’omonima poesia del maestro dell’Orrore e uno dei soli migliori dell’intero platter chiude un album senza infamia, ma anche senza lode. Visto che però conosciamo le grandi capacità compositive di Sakis, ci saremmo aspettati (lecitamente) qualcosa di più, magari con maggior riposo alle spalle e tempo per scrivere.
“Persino un dio re può sanguinare”.