7.5
- Band: ROYAL THUNDER
- Durata: 00:40:04
- Disponibile dal: 16/06/2023
- Etichetta:
- Spinefarm
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Collassati come band all’incirca nel 2018, prima che il mondo stesso prendesse la piega del fragoroso disastro pandemico, i Royal Thunder con “Rebuilding The Mountain” si danno una seconda chance. Non siamo tanto noi a dirlo, quanto loro a dichiararlo, confessando di essersi sciolti per dipendenze varie e attriti che avevano rovinato qualche anno fa i rapporti tra i diversi membri. Nel 2020, dopo un paio d’anni lontani, la cantante/bassista Mlny Parsonz e il chitarrista Josh Weaver hanno riallacciato i rapporti con il batterista Evan Diprima, col quale il dialogo si era interrotto da qualche tempo. Da lì è iniziato un processo di progressiva risalita, con uno scambio di idee fattosi sempre più fitto, fino a sfociare nel quarto album della band.
Li avevamo lasciati nel 2017, con “WICK”, finalmente maturi e consapevoli di quello che sapevano fare meglio, ovvero un hard rock settantiano (Led Zeppelin quale influenza primaria), sanguigno, sufficientemente sporco e selvaggio ma intriso di poetica sudista, plumbea oscurità quanto basta, melodie avvolgenti e graffianti linee vocali al femminile. Un salto in avanti, dopo due dischi, “CVI” e “Crooked Doors”, dalle idee discrete ma in fondo prolissi, ridondanti e inoffensivi. Questo ritorno discografico li ritrova invece in continuità col materiale di “WICK”, chiaro segnale che quando si è deciso di riattaccare la spina, i musicisti americani l’hanno fatto al momento giusto, di nuovo carichi e lucidi nel maneggiare la loro arte.
Così, con quel carico di introspezione frutto di ferite, dolori e riflessioni sui propri errori e come vi si potesse porre rimedio, “Rebuilding The Mountain” va probabilmente a definirsi come la miglior pubblicazione offerta finora dal gruppo. “Drag Me” è un’opener perfetta cartina di tornasole dello stato d’animo del trio: nessun desiderio di compiacere, solleticare divertimento, provocare sing-along. Al contrario, la musica si dipana morbida, sonnecchiante, tra arpeggiati gradevoli, note di tastiera flebilmente vintage, il rintocco secco e monocromatico della batteria, la voce ancora più ammaliatrice della Parsonz. Convogliano nella dimensione attuale dei Royal Thunder caratteristiche trasversali, andamenti leggeri e onirici che si trasmutano in scampoli di ruvidezza presto sedati, secondo un andamento a cavallo tra vecchio progressive e occult rock. È un suono caldo, composto e straripante tanti piccoli dettagli, asciugato di propaggini metal moderne e desideroso di testimoniare l’aderenza a un ecosistema hard rock d’altri tempi, senza rinunciare a creatività e tumulti dell’animo.
Le tonalità alla Janis Joplin della Parsonz si adattano a un percorso sonoro che, volendo restare ai contemporanei, guarda a compagini come Jess And The Ancient Ones e Rival Sons, prendendo dai primi l’effervescenza ritmica e gli arrangiamenti multicolori, dai secondi il feeling chitarristico e la prorompente emotività della chitarra solista. La tracklist, alla prima impressione, potrebbe sembrare un poco ermetica, chiusa su se stessa, proprio perché non vi cono ritornelli a effetto o muri di suono che possano assuefare in pochi istanti. Meglio così, perché non bisogna nemmeno aspettare troppo per cadere succubi delle spirali della doomeggiante (e orrorifica) “Now Here-No Where”, o dell’intristito rock-blues di “Pull”.
I Royal Thunder, nell’arco del disco, tengono costantemente a freno la distorsione, fanno dialogare morbidamente sintetizzatori e chitarra, prediligendo note cariche di un dolceamaro sentimento; una mestizia di fondo che non diventa mai sconforto, ci porta piuttosto in ambientazioni rarefatte, con l’anima rock della formazione a illanguidire fino a sfumare, impercettibilmente, in un crooning molto americano e contagiato dal folk (“Live To Live” ne è la migliore esemplificazione). Anche quando i ritmi paiono farsi incalzanti (“My Ten”) è l’elaborata malinconia a prendere il sopravvento, a farsi strada tra i graffi vocali e l’immaginifico turbinare delle tastiere. Qualche ripetizione sul finale, con le comunque buone “The King” e “Dead Star”, non toglie poi molto a un ritorno sulle scene pieno di inventiva, passione e sincerità, per una formazione che ha saputo combattere i propri demoni, averne la meglio e rifarsi viva più preparata e brillante che mai. Bentornati.