9.5
- Band: RUNNING WILD
- Durata: 00:58:13
- Disponibile dal: 21/10/1992
- Etichetta:
- EMI
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Il culmine (di una civiltà, di una carriera) si scorge in quel momento fugace ed abbagliante in cui gli sforzi dell’ascesa e i prodromi del declino sono perfettamente in equilibrio: la massima estensione del progresso, il potere genera trionfi opulenti e l’arte stessa si sublima in eccellenti espressioni quasi barocche ma comunque irripetibili, prima e dopo; eppure, annidato nella sicurezza di innumerevoli vittorie, nell’oro che scorre a fiumi, si nascondono, covando con pazienza, quella fiacca stanchezza e tracotanza che portano al declino.
“Pile Of Skulls”, settimo album dei Running Wild, immortala esattamente il momento in cui la filibusteria di Amburgo ha ben saldo nelle proprie mani il controllo del mare ribollente di heavy metal (coadiuvata dai conterranei Grave Digger o dai Blind Guardian, che però già all’epoca veleggiavano verso altri lidi con “Somewhere Far Beyond”), affermando il proprio dominio a suon di riff incalzanti e brani magistrali, prima che le maree spietate dell’industria musicale cambino ancora. Nel 1992 il pugno d’acciaio con cui Rock’n’Rolf dirige la propria nave è ancora ferreo, sia nella composizione della musica che nella gestione manageriale: poco importa che, altrove, stiano nascendo nuove correnti e nuovi modi di concepire la musica (dello stesso anno sono “Dirt” degli Alice In Chains, il gelido “A Blaze In The Northern Skies” dei Darkthrone e la carica mefitica di “Legion” dei Deicide, per dire), egli è ancora in grado di affrontare qualsiasi avversario con uno sprezzante ghigno di spavalderia degno del miglior Edward Teach. Ed a ragione, perchè questo album racchiude in sè alcune delle composizioni migliori della band, sublimando – per tecnica, groove e tematiche – quanto di eccellente già creato con “Under Jolly Roger”, “Port Royal” e “Death Or Glory”: mai come in quest’opera troviamo una tale maturità di suono, scrittura e arrangiamenti, unita ad un’invidiabile capacità di mettere in musica la sconsiderata epicità di bucanieri e corsari e interpretare i dettami trabordanti di cattiveria, speed e sozzure della scuola teutonica fondata su heavy, power e thrash più classicheggianti. Non è ancora in vista la china scoscesa del declino (i successivi “Black Hand Inn” e “Masquerade”, pur rimanendo un mezzo gradino sotto a parere di chi scrive, restano comunque lavori validissimi), il ringhio di Adrian sventola ancora ben alto sul pennone, il mare aperto è ancora territorio di scorrerie.
In “Pile Of Skulls” tornano le epopee piratesche a base di polvere da sparo e dobloni con “Jennings’ Revenge”, in cui la storia di Henry Jennings viene raccontata con un pattern di batteria degno di una polveriera e un ritornello da battaglia; a ciò si aggiungono vere e proprie cannonate heavy in grado di dipingere, con tratti velenosi e graffianti, le varie vicende di corruzione e abusi di potere (cattolico e secolare) che accompagnano la storia umana: un filo rosso che parte dalla passata “Uaschitschun” ed il suo bellissimo giro di basso, che prosegue idealmente per i ritmi cadenzati della tragica “White Buffalo” ed arriva all’iconico riff indiavolato della titletrack di questo album (con l’emblematico “Hey, Mr. Pope, Mr. Military Man/ Kings and Queens/ More evil than it seems/ You lie, you cheat, you betray, you kill all the way” in apertura). Non ci sono cali di tensione, nè defaillance nella linea di fuoco che si apre, dopo la strumentale “Chamber Of Lies”, capace in soli tre minuti di prendere l’ascoltatore per la collottola e scaraventarlo senza scampo sul ponte di prua, con le roboanti “Whirlwind” e “Sinister Eyes”, dove accanto agli oramai iconici urlacci del cantante troviamo un comparto ritmico in stato di grazia, a cura di Stefan Schwarzmann (batteria) e Thomas Smuszynski (basso), fronte compatto di nervi e muscoli possenti di tutto l’album, abili nel trainare (“Roaring Thunder”) tanto quanto nel sorreggere l’ossatura delle canzoni. E se “Lead Or Gold” è una vera e propria dichiarazione d’intenti, “Black Wings Of Death” resta invece uno di quegli anthem perfettamente efficaci nella propria genuina epicità: anche dopo centinaia di ascolti è impossibile poter sfuggire alla scarica adrenalinica che è in grado di trasmettere fin dal primo giro di note, insieme epico e marinaresco quanto basta. Basterebbero anche ‘solo’ queste canzoni per rendere “Pile Of Skulls” uno dei capolavori del gruppo tedesco, ma a sigillare il forziere c’è IL brano che più di tutti è in grado di incarnare la vera essenza dei Running Wild, quello in grado di renderli amati da generazioni di metallari cresciuti col desiderio (più o meno nascosto) di poter perdersi nelle bettole della Tortuga che fu, quello in grado di far perdonare le deviazioni fuori rotta, la bussola smarrita e mai veramente ritrovata: “Treasure Island”. In dodici minuti scarsi, aperti da uno sciabordare di onde e le prime righe del racconto in spoken word, viene istoriato il grande classico di Robert Louis Stevenson con una grandeur nelle bordate degli assoli (di Rolf e Axel Morgan, qui all’ultimo contributo nella band), una potenza di ritmo, una tavolozza vivida di colori nel dipingere le scene descritte (con il frontman impegnato a dar voce tanto al giovane Jim Hawkins quanto a Long John Silver – e davvero non sapremmo trovare interprete migliore) che risultano tutt’ora da pelle d’oca ed inarrivabili; con la salsedine che indurisce le sei corde ed un groove granitico, troviamo conferma del fatto che quest’album costituisca l’opera forse più grandiosa e bella dei Running Wild: ruvido ed insieme ricercato, grintoso e trascinante, spietato ed insieme sogghignante – come solo i fratelli della Filibusta sanno essere.
“Treasure Island
Where the brave fell
A one-legged devil
From the pit of hell
A greedy demon on his treasury
Cursed the island, oh, eternally”