6.5
- Band: RUSSIAN CIRCLES
- Durata: 00:39:50
- Disponibile dal: 02/08/2019
- Etichetta:
- Sargent House
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Per chi ama i Russian Circles ancora una volta ci si troverà di fronte ad un megalite convincente. Per chi vorrebbe, dovrebbe o potrebbe entrare in contatto per la prima vola con questa band, “Blood Year” non è sicuramente il miglior punto d’approdo per conoscere il trio di Chicago. Questo è, infatti, quello che in campagna stampa è stato definito un “single-minded statement of authority”: un album che vuole sancire l’autorità della band di Sullivan e soci in termini di coerenza e di imposizione sonora.
Restando sempre una formazione live con i controcojones, i cui suoni e la cui possenza sonora riescono a convincere tutte le volte, qui, in questo nuovo e settimo lavoro, si nota però una certa stanchezza a livello compositivo. Non c’è una grande ricerca in nessuno dei brani contenuti in “Blood Year”, che si limita fondamentalmente a riprendere i pattern rocciosi che ormai abbiamo conosciuto ampiamente, soprattutto con l’epico “Guidance”. In termini di risultato finale, oltre ai gioiellini di “Empros” e “Geneva”, era infatti l’album del 2016 che aveva ormai suggellato il loro nome come un caposaldo del post-metal strumentale. Qui, purtroppo, se si è masticata a dovere la discografia della band, si resta con un lieve retrogusto di noia e di déjà-vu.
Se “Arluck” e “Milano” riescono sicuramente a far muovere la testa e a ribadire a gran voce il sound bombastico della band, non c’è però una grande varietà di suono che arriva fino alla fine di questo nuovo lavoro e la maggior parte delle canzoni scorre in un continuum che questa volta è veramente difficile scindere in tracce singole. Nessun momento in sé sembra essere così decisivo per collocare il lavoro in termini di novità vera e propria. Il tutto suona esattamente come un compendio di quello che Sullivan, Turncrantz e Cook ci hanno già dimostrato in numerose occasioni.
Nulla di eccessivamente peccaminoso. Come già affermato, “Blood Year” rimane un disco ben suonato, ben prodotto (Kurt Ballou resta la sicurezza definitiva), e che presenta ancora una volta le caratteristiche principali di una delle band fondamentali del post-rock. Da chi li segue da un pezzo forse ci si aspettava qualcosa di più. Non c’è dubbio.