7.0
- Band: SADIST
- Durata: 00:37:20
- Disponibile dal: 09/11/2018
- Etichetta:
- Scarlet Records
- Distributore: Audioglobe
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Ottavo album in studio per i Sadist e, con questo capitolo, la loro seconda parte di carriera ha ufficialmente pareggiato la prima e si appresta ad un sorpasso con ritmi non propriamente serratissimi (specialmente visti i tempi delle band più attuali che fanno uscire album a raffica), ma comunque positivamente costanti. Sono passati tre anni dall’ottimo “Hyaena”, in mezzo, il vocalist Trevor ha dato libero sfogo alla sua sete di hard rock con i suoi Trevor And The Wolves, e oggi ci troviamo a parlare di questa nuova fatica. Quando i progressive death metallers genovesi decidono di dare alle stampe un disco, una delle prime domande che ormai si pone il fan medio della band è quale sarà questa volta il concept trattato. Ecco, per questo “Spellbound” i Sadist hanno scelto di omaggiare le opere di Alfred Hitchcock, per cui ogni canzone è ispirata a uno dei film del geniale regista.
Se l’obiettivo era quello di ricreare un’atmosfera horrorifica, vagamente retrò, cupa e sinistra, beh ovviamente questo è stato centrato in pieno, specialmente grazie ad un uso sapiente dei suoni delle tastiere da parte dell’intramontabile Tommy Talamanca. Mai come in questo caso abbiamo sentito rimandi a quanto di buono è stato fatto da Simonetti e dai suoi Goblin, d’altra parte il fulcro del disco è proprio quel tipo di sonorità, quindi viene vissuto più come un omaggio che come uno ‘scopiazzamento’. Il suono dei Sadist di “Spellbound” è crudo, grezzo, malsano e cattivo, forse questo è l’episodio in cui Trevor utilizza più growl che in tutti gli altri platter in cui ha cantato con i Sadist. Il riffing e la struttura dei brani è per lo più claustrofobica ed è un disco molto difficile da interpretare in quanto introverso, persino poco dinamico nei suoi frangenti più singhiozzanti o rallentati. E’ raro intravedere bagliori di melodia, quasi sempre ad opera delle tastiere di Tommy, che interviene ora con aperture al limite del sinfonico, oppure con piccoli refrain dalle atmosfere sinistre e crepuscolari.
Sebbene un giudizio, che si voglia o no, risente sempre dei gusti personali di chi lo esprime, e della eventuale (poca, in questo caso, ahimè) passione che egli nutre per gli argomenti trattati nel concept, che così tanto influenzano la musica come in questa situazione, dobbiamo dire che in questo disco abbiamo notato due sostanziali aspetti che esulano da quanto detto sopra e che non ci hanno fatto propendere per una valutazione eccelsa di “Spellbound”. Il primo, e probabilmente più marginale, è quello legato ad una produzione un po’ troppo spoglia e scarna. Alcuni momenti (ad esempio quelli solistici) sono un po’ troppo vuoti, così come il suono in generale dei singoli strumenti, molto crudo e secco, poco ricco e pertanto non particolarmente avvolgente. Il secondo aspetto invece è legato ad un songwriting molto eterogeneo e coerente da un lato, ma per contro eccessivamente uniforme dall’altro. In soldoni: se dovessimo citare un brano che ci ha colpito in maniera particolare positivamente (o negativamente), non sapremmo da quale partire. Tuttavia stiamo parlando certamente di un bel disco, assolutamente in linea con quanto di buono è stato fatto finora dalla band ligure, e che ne conferma ancora una volta le capacità, la maturità e la cifra artistica, nonché il coraggio di tentare sempre di andare oltre, di superarsi e di non sedersi mai sugli allori, cercando tutte le volte di comporre qualcosa di nuovo e ricercato.