9.0
- Band: SADUS
- Durata: 00:29:07
- Disponibile dal:
Spotify non ancora disponibile
Apple Music non ancora disponibile
Qualche anno fa, proprio su queste pagine, si scrisse a ragione come gli Slayer, nel 1986, sfoderarono con “Reign In Blood” “i ventinove minuti di musica più violenti e oltranzisti mai sentiti, o persino immaginati, fino a quel momento“. Parole incise sulle tavole della legge del thrash metal che fecero capolino un po’ ovunque, andando a solleticare i desideri più violenti e luciferini di moltissime band a venire. Tra le tante, vi furono pure i Sadus, anch’essi californiani, i quali, un paio di anni dopo la celebrazione del regno sanguinolento, debuttarono sulla lunga distanza con un album, che se non superò il lavoro di Hanneman e compagni in tema di violenza sonora, riuscì a prenderlo a spallate a livello di ferocia tecnica e follia d’intenti. Stiamo parlando di “Illusions”, o “Chemical Exposure” come venne rinominato nel 1991 in occasione della sua ristampa da parte della R/C Records.
Sì perchè nell’88, dopo i lapidari demo “Death To Posers” e “Certain Death”, i Sadus andarono di autofinanziamento per la pubblicazione del loro esordio ufficiale, chiedendo aiuto, in fase di produzione, all’allora chitarrista dei Metal Church, John Marshall. Il risultato è una rasoiata lunga nove brani in cui la band di Antioch ci morde le caviglie dal primo all’ultimo minuto (anch’essi ventinove guarda caso), durante i quali la voce di Darren Travis (un mix schizzato tra l’ugola di Chuck Schuldiner, Mille Petrozza e Tom Araya) ricopre il ruolo di un cane rognoso, letteralmente impazzito dietro al microfono. Il suo, è il primo di quattro elementi uniti nel nome di un putrido thrash che puzza di death, colpendoci al basso ventre senza sosta, trascinandoci su un folle binario che troverà pace, o semplice oblio, solamente con la conclusiva “Chemical Exposure”.
E se il ringhio di Darren si pone di diritto come la miccia terminale di questa autentica bomba ad orologeria, sono gli altri tre ingredienti a definire la portata massima della detonazione. Da una parte il lavoro delle due chitarre: i riff smerigliati dallo stesso Travis, in compagnia di Ron Moore, sono simultaneamente angoscianti ed orecchiabili, trovando la definitiva esplosione negli assoli in serie che si inseguono di brano in brano. Dall’altra, la prestazione di Jon Allen. Chirurgico? Assolutamente. Caotico? Non scherziamo. Le ritmiche imposte dal batterista californiano riescono a trasmettere una doppia sensazione che sa di cardiopalma e di allegro giro sulle giostre; ti accarezza i glutei, prendendoti a calci nel sedere. Nel mezzo, infine, la presenza di un bassista che, nel tempo, sarebbe diventato IL bassista: gli arzigogoli disegnati da Steve DiGiorgio sono come un serpente che incalza la sua preda; lampanti e stentorei, assestano stacchi repentini e decisi, riempiendo di ammaliante oscurità le scorribande perpetrate dal resto della truppa.
Un motore a propulsione atomica acceso nell’immediato, in quello che diventerà a tutti gli effetti uno dei brani simbolo dei Sadus: “Certain Death” è un sussulto unico, costantemente alimentato dalla continua linea di riff riversati dalla coppia Travis/Moore, su cui si innesta, sovrano, l’incedere puntuale di DiGiorgio; e lo stacco strumentale posto a metà del brano, ripreso nell’assalto finale, è la perfetta testimonianza della diabolica combinazione assemblata dalla band statunitense. “Certain Death”, insieme alla nevrotica ed articolata “Undead” ed alla sfuriata di “Sadus Attack” (Aaaaattaaaaack!) piazzano una terribile tripletta iniziale che destabilizza l’ascoltatore, costringendolo comunque a rimanere incollato allo stereo, per subire nuove legnate, bramoso di ulteriori scosse alla colonna vertebrale. Scariche garantite in primis dalla bestiale “Torture”, in cui Travis sembra recitare la parte di un vero e proprio indemoniato, lasciando poi allo stesso DiGiorgio il compito di ritagliarsi lo spazio per un personalissimo assolo, apripista dell’ennesima colata di riff, sempre ben ragionati e mai scontati. A seguire, come il più classico dei ‘carico da 90’ arriva “And Then You Die”, vera e propria sentenza sonora nei suoi due minuti scarsi, martellati a dovere dall’operato di Allen.
Ad inizio recensione si è incensato “Reign In Blood”, e un omaggio (voluto o meno) a questa pietra miliare lo troviamo in “Hands Of Fate”, nella quale il richiamo alla “Criminally Insane” di Araya e soci risuona evidente, soprattutto nella prima parte del pezzo, salvo poi essere sommersa dalla mole tecnica di assoli e cambi di ritmo innescata ancora una volta dal lavoro dei quattro musicisti. La tensione generale non cede il passo ad alcun ripensamento e, dopo una “Twisted Face” leggermente meno ispirata di altre, è “Fight Or Die” a riprendere il bandolo della matassa, mettendo sul piatto un pezzo ragionato e completo, in cui troviamo nuovamente tutte le caratteristiche vincenti dei Sadus; con “Certain Death” è sicuramente uno degli episodi più meritevoli dell’intero album. Da qui si arriva alla decadente e terremotante titletrack, calpestata da cima a fondo dal basso di DiGiorgio, anticipando quindi la definitiva chiusura: come accennato qualche riga sopra, “Chemical Exposure” si presenta come un tuffo ovattato nel nulla cosmico, quasi a voler gettar la spugna di fronte a cotanta schizofrenia.
“Illusions”, nella sua capacità di abbinare la furia thrash e la grettezza death dell’epoca, si pone sul piano di quegli album da possedere obbligatoriamente, con i quali è necessario fare ogni tanto due conti, così tanto per gradire.