7.0
- Band: SAINT VITUS
- Durata: 00:32:40
- Disponibile dal: 27/04/2012
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
Spotify:
Apple Music:
Diamo il bentornato a Wino, Mark Adams e Dave Chandler senza riserve alcune e con un bel sorrisone stampato in faccia, perchè questi tre illustrissimi biker capelloni (ormai brizzolatissimi) ci hanno rifilato nuovamente (a distanza di ben ventidue anni!) null’altro se non tutto ciò che abbiamo sempre amato di loro, sopratutto della line-up classica, durata fino a “V” del 1990. Alla proposta invariata, ma come sempre unica e tipica dei tre, si aggiunge stavolta anche un neo-introdotto pathos nella scrittura – appannaggio soprattuto delle liriche e delle voci di Wino – che raramente la band ci aveva mostrato prima, se non agli esordi, e che probabilmente deriva dal tentativo di riempire un vuoto enorme, ovvero quello lasciato dallo storico batterista Armando Acosta, scomparso nel 2010, e probabilmente, nel bene o nel male vero ispiratore di questo graditissimo ritorno. Come sempre, sono Wino e Dave Chandler i due alchimisti che ancora una volta mescolano gli ingredienti classici e irrinunciabili dell’ormai leggendario Vitus sound, per risvegliare questa vecchia e iconica belva del watt. La voce di Wino, come un buon bourbon stra-vecchio, sembra solo migliorare col tempo. Sembra esplodergli dal petto come un ruggito, ma allo stesso tempo ha sempre l’immancabile timbro soul e blues, e il tatto e la delicatezza adatta per non far mai evaporare l’immagine essenziale del grande vocalist, che il Nostro musicista d’altronde si porta dietro ormai da trent’anni. I riff di Chandler, come scongelati direttamente dal 1990, sono sempre irrimediabilmente uguali, ma anche riconoscibili a un chilometro di distanza. Fumosi, stordenti, dissonanti e bizzarri, i riff di questo vecchio bucaniere della sei corde vivono di una fierezza tutta loro e in essi si scorge ancora il seme del doom primordiale e la stoffa del vero pioniere, di chi da ragazzino ha passato ore in camera a jammare la canzoni di Hendrix e dei Sabbath, le ha filtrate poi in un mare di droga e distruzione, e ha contribuito così alla creazione di un genere – il doom ovviamente – e a influenzare uno stuolo infinito di band a venire. In “Lillie: F-65” Chandler non si risparmia in niente, tiene il tutto in sospensione e a fuoco, con un riffing essenziale ma dannatamente bluesy e obeso che permette ottimamente a Wino di svolgere il suo cerimoniale con disinvoltura totale. Arrivato il momento propizio, il Nostro amico si lascia poi andare ai suoi ormai iconici e strambissimi assoli, in cui il delay viene usato quasi come mezzo coercitivo. Insomma, che dire? Sempre più uguale a se stesso nello stile, ma inimitato da ormai trent’anni. Ci sarà pure un motivo alla base di questa irraggiungibile essenzialità. Il disco prende forma così, destreggiandosi benissimo tra una inevitabile ma sempre gradevolissima riproposizione del vecchio, quasi sempre adagiata su ritmiche soporifere e incanalato da strutture molto bluesy (“Let Them Fall”, “The Waste Of Time”, “Dependence”), improbabili sfuriate punk ultra-heavy che ci ricordano da dove viene lo sludge metal (“The Bleeding Ground”, “Blessed Night”), siparietti più folky e introspettivi (“Vertigo”) e una generale attitudine da rocker stagionatissimi e incorreggibili che dopo tutti questi anni ancora fanno a cazzotti coi watt la marijuana e con un oaceano di whisky. Va fatta menzione, come sempre, delle liriche di Wino, tremendamente comprensibili, come se fosse quasi prosa, e come sempre molto intelligentemente incentrate sui soliti tempi di perdizione, paranoia, solitudine, guerra e pessimismo più o meno dilagante e fuori controllo. Insomma, un ritorno tanto gradito quanto necessario, che ci ha riconsegnato una grandissima band completamente preservata e che ha ancora parecchio da dire.