9.0
- Band: SAMAEL
- Durata: 00:35:58
- Disponibile dal: 28/02/1994
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Self
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Metà anni novanta. Uno dei periodi più elettrizzanti nella storia del metal estremo. Tempo di mutazioni, imponderabili all’epoca, ora divenute filoni floridi e consueti. Al tempo accadevano rivoluzioni, scandalose per alcuni, geniali per altri. Si aprivano spiragli, brecce tramutatesi in portoni, viuzze divaricatesi in autostrade. In questa fase, a segnare il cambiamento ci sono essenzialmente due tipi di dischi: quelli di passaggio, dove suoni vecchi e nuovi convivono, gemelli siamesi ancora incapaci di stare uno senza l’altro, e quelli conclamanti l’avvenuta entrata in una nuova era, che paiono introdurre al mondo una formazione non avente più nulla a che spartire con la precedente. Protagonisti di questa evoluzione gruppi extreme metal che, partiti da coordinate black e death metal, stavano scoprendo atmosfere lontane dal sentire originario. A furia di innesti fra tipologie di suono antitetiche, si sarebbero formate sostanze musicali destinate a essere testi sacri negli anni a venire per intere generazioni di musicisti e fan. Nel caso dei Samael, se “Passage” è giustamente considerato il frutto più maturo degli aneliti futuristi-spaziali del duo Vorph-Xy, un disco pienamente incastonato in un’epoca anni luce avanti a quella dei primordiali “Worship Him” e “Blood Ritual”, è in “Ceremony Of Opposites”, ultimo lascito a vedere Xy alla batteria, con Rodolphe H. (musicista in line-up solo in questo disco e nell’ep “Rebellion”) impegnato alle tastiere, che avviene l’inseminazione della nuova specie. Old-school e visionarietà vanno a braccetto e capire dove si fermi il primo e assurga a protagonista la seconda non è così facile da comprendere. La produzione, valutata con l’orecchio dell’anno 2017, potrebbe sembrare indecisa, un compromesso fra il black metal rituale dei primi due album e la volontà di aprirsi ad algidi concetti avveniristici; a dire il vero, sta anche qui il fascino dell’opera, in scelte di suono che comunicano molto dello spirito pionieristico di quegli anni. Cosa tratteneva i Samael nel passato, in quei tempi? Chitarre e batteria suonano secche, ruvide, per nulla inclini alle seduzioni che le tastiere vorrebbero sublimare; lo stesso cantato di Vorph (qui utilizza ancora il nome di scena di Vorphalack) nulla concede alla modernità, un latrato lancinante che non si sposta di un millimetro dalla ferinità trucida dei primi lavori. Le tastiere, invece, staccano gli occhi da terra e si mettono a scrutare la volta del cielo in cerca di risposte; ne trovano di profonde, rivelatrici, sconvolgenti. Già bravi nei primi album a rivestire la ferocia di solidi orpelli catchy, i Samael mettono in fila hit estreme una dietro l’altra in “Ceremony Of Opposites”, non profondendosi in lungaggini di sorta, quanto in materiale asciutto ed essenziale, dove ogni nota è ponderata per entrare sottopelle e spostare la prospettiva attraverso cui si guarda al metal estremo. Cattedrali di ghiaccio svettano nello spazio, innalzate dalle tastiere, i Samael vi passano attraverso con il passo marziale che diventerà da qui in avanti loro nobile marchio di fabbrica. “Black Trip” si configura quale prima processione cosmica, striata di sangue, che evapora in buchi neri immensi persi in galassie lontane. Un torbido flusso ascendente, il lavoro di chitarra, ancora permeato di digrignante black-thrash, ma capace di spalancarsi ad andamenti ragionati ed enfatici. I tempi sono spesso cadenzati, Xy si sta già avvicinando alle squadrate andature di drum-machine architettate per “Passage”; ogni traccia ha un suo specifico groove, che si pianta in testa e lì rimane, incancellabile. Ma sono le arie maestose di Rodolphe H. a dare le zampate vincenti, pensiamo alla colossale apertura sinfonica di “‘Till We Meet Again”, al ‘macinare’ industriale di “Mask Of The Red Death”, al peana incalzante di “Flagellation”. Synth oscuri e sottili richiami alla musica classica evocano suggestioni difficili da descrivere, che se ancora oggi sembrano maledettamente avanti, figuriamoci che impressione potevano provocare allora! “Baphomet’s Throne” rappresenta il gancio più forte con gli albori, un cadenzato strascicato portatore di una malvagità invasiva, primordiale. Vorph assume ancora meglio che altrove i panni del demone sterminatore, divenendo autore di una prova vocale agghiacciante. Dura poco meno di trentasei minuti “Ceremony Of Opposites”, non vi è nulla di troppo al suo interno, solo ciò che è strettamente necessario. La rievocazione datane dagli stessi Samael di recente, quando in numerosi festival hanno suonato il disco per intero, ha spostato il tiro sui toni industrial-elettronici della fase di carriera successiva, a parere di chi scrive con successo, pur scontentando gli amanti del primo periodo della formazione; per costoro, non resta che rimettere l’album a girare sullo stereo e farsi trasportare verso gli Inferi in sua compagnia.