9.5
- Band: SAMAEL
- Durata: 00:42:11
- Disponibile dal: 19/08/1996
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Self
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Nel 1996, un anno d’oro per le uscite di metallo estremo contaminato e poco ortodosso, la Century Media Records, label tedesca in quegli anni fortemente in ascesa grazie a produzioni un po’ stereotipate – vedasi l’utilizzo ubiquo del magico producer Waldemar Sorychta – ma assolutamente sconvolgenti, torna sul mercato con i black-deathster svizzeri Samael. Il sodalizio band/etichetta è già decisamente affermato, in quanto, escludendo l’esordio (su Osmose Productions) un po’ acerbo “Worship Him”, due mezzi capolavori sono già sbarcati sul pianeta Terra qualche anno prima: “Blood Ritual” del 1992 e “Ceremony Of Opposites” del 1994, gioiellini di black-death metal sinistro e luciferino con un originale approccio tastieristico e pragmatiche ritmiche marziali. La bontà del combo di dischi appena menzionato non può, però, all’epoca, far presagire completamente l’evoluzione che i fratelli Locher, Michael e Alexandre, in arte satanica noti come Vorphalack e Xytras, riusciranno a sviluppare per l’album successivo, il qui recensito Bellissimo “Passage”. I due leader si accomiatano dal precedente tastierista Rodolphe H., utile in “Ceremony Of Opposites” a far capire determinate potenzialità, lasciando a Xytras via libera sullo strumento e sull’uso copioso dei sintetizzatori, mettendo da parte anche la batteria a favore di una più funzionale e glaciale drum-machine; viene reclutato un secondo chitarrista, Kaos, per rimpolpare il suono della chitarra di Vorph, mentre il fido Masmiseim si occupa delle basse frequenze. Dall’estro compositivo visionario di Xy esce dunque il masterpiece “Passage” che, a distanza di quasi vent’anni dalla sua release, ancora risulta attualissimo e moderno, oseremmo scrivere addirittura irraggiungibile, per atmosfera, freddezza e insita malvagità. I Samael si fanno pompare il suono a dismisura da Sorychta, lo rendono più dinamico, veloce, assassino, ma anche atmosferico, mistico e soprattutto epico e ridondante; tutto ciò mantenendo, per i quaranta minuti di durata del platter, un’attitudine massacrante e aliena, che ben si confà allo scarno booklet di presentazione, così come alla minimale e selenica copertina. Sono undici le tracce in cui Vorph digrigna e declama, con un growl spesso e profondo come mai prima d’allora, testi amabilmente ripuliti dalle audaci blasfemie precedenti e dotati di una sottigliezza perspicace e intelligente, anticamera di ciò che il vocalist svilupperà poi in parte nel futuro, ovvero una quasi completa antitesi lirica al Vorph dei primi dischi. I suoni elettronici e l’uso delle tastiere sono micidiali per evocazione e solennità, mentre la batteria programmata è, a rischio e pericolo dei Samael, un vero lampo di genio. L’album viene aperto da una doppietta epocale, “Rain” e “Shining Kingdom”, che assieme mettono sul piatto tutto ciò che si ascolterà nei seguenti minuti: l’opener è la classica canzone immortale – riffing micidiale, profondità spaziale, chorus d’apoteosi, un qualcosa di catchy – mentre la seconda mette in assoluto risalto la nuova dimensione assunta dall’uso dell’elettronica, davvero strabordante e incisivo. La terza traccia però, fra le preferite di chi scrive, ridefinisce di nuovo i limiti compositivi dei Samael, appena infranti con “Rain”: “Angel’s Decay” vede la propria impostazione su un giro caleidoscopico di keyboards, sul quale poi si avvitano feroci lampi di chitarra blackish e la voce espressiva e grave di un Vorph ai suoi massimi storici – quanti di voi godono nel sentirlo ruggire il verso ‘I’ve given up / I’ve given up / larvae rots’? Insomma, un capolavoro dentro il capolavoro, che precede la più standard “My Saviour”, altro brano che definire filler è pura eresia, e il singolo “Jupiterian Vibe”, per il quale la band fa uscire anche un video, al tempo anche ogni tanto trasmesso dai vari Headbangers’ Ball e Sgrang!: il pezzo è lento e ritualistico, una danza ondeggiante e cosmica che trasborda il fruitore fra le stelle e i pianeti, fra i quali si annida di certo un oscuro terrore. Si arriva ad un altro highlight di “Passage” con la traccia numero sei, la più sperimentale del lotto, “The Ones Who Came Before”, brano mortifero e industrial-black in cui pulsioni techno ripetute si insinuano fra le tastiere apocalittiche, usate per simulare cori di voci umane, e il solito rifframa assassino che solo apparentemente rimane in secondo piano, per poi venire fuori prepotente sull’ascolto prolungato. “Liquid Soul Dimension” avrebbe potuto benissimo far parte della colonna sonora di “Terminator 2”, tanto è trascinante e tetragona, con l’incipit e il finale che davvero ricordano parti della soundtrack del film citato. E mentre Vorphalack si cimenta anche in testi più allucinati (piuttosto chiaro il riferimento all’LSD nella track appena descritta), “Passage” prosegue la sua corsa distruttrice placandosi e addolcendosi qualche minuto per l’arrivo di “Moonskin”, dolce e malinconica semi-ballata siderale. Poco è il tempo di rilassarsi dietro la Luna, però, in quanto presto si riparte verso i lontani spazi di Saturno, nei quali “Born Under Saturn” ci ammalia con tutta la sua maestosità e la sua ruvidezza, ennesimo punto focale di un disco incredibilmente perfetto ed efficace; efficace a tal punto, che sembrano quasi solo ‘scolastici’ i due episodi che lo chiudono, ovvero “Chosen Race” e “A Man In Your Head”: un leggero calo di tensione si avverte a fine tracklist, ma nulla può ormai frenare l’inerzia vincente di almeno otto-nove tracce da capogiro e inattaccabili. Dopo la pubblicazione ed il successo di “Passage”, i Samael continueranno nella loro evoluzione ‘positiva’ e ‘solare’ ammorbidendo il sound e i testi ulteriormente, senza mai rinunciare al loro trade-mark principale, ovvero l’epica marzialità unita ad atmosfere uniche. Eccovi “Passage”, dunque, a tutti gli effetti un disco di passaggio, di transizione; a memoria, sicuramente uno dei migliori dischi di transizione mai concepiti.