8.0
- Band: SAMAEL
- Durata: 00:41:07
- Disponibile dal: 01/04/1991
- Etichetta:
- Osmose Productions
Spotify:
Apple Music:
Ci sono dischi che, pur non mostrando gli autori all’apice di quanto avrebbero fatto poi in futuro, riescono a marchiare indelebilmente l’immaginario su cui poi un’intera discografia viene basata, assurgendo allo status di album di culto. Un esempio a caso è quello dei Sepultura, il cui “Morbid Visions” (in accoppiata o meno con “Bestial Devastation”) non può essere considerato certamente il loro capolavoro, ma la cui aria malsana e torbida lo ha reso culto imprescindibile per qualsiasi amante del metal estremo. Caso simile, forse, quello di “Worship Him”: la band svizzera farà di meglio col successivo “Blood Ritual” (e ancor meglio subito dopo, con “Ceremony Of Opposites”), per poi in futuro divenire una cosa decisamente diversa dai propri inizi, ma l’essenza scarna e malvagia di questo debutto ha un valore altissimo, permeato com’è di un’acerba malvagità.
Nel 1991, la dedizione alla causa dell’oscurità dei Samael è marcata a sangue in dieci tracce che presentano sì qualche punto da rivedere, qualche ruvidezza che verrà smussata successivamente, ma che allo stesso tempo sono un trionfo di metallo estremo e intransigente. I due fratelli Vorphalack e Xytraguptor (con Masmiseim al basso) misero in musica il proprio amore per quello che era il metal estremo dell’epoca e lo rielaborarono in un death metal dai connotati black derivante da gente come Bathory, Venom, o i conterranei Hellammer (poi Celtic Frost), evidentissimi nell’approccio ritmico e in certi riff, nei tempi cadenzati, nelle ripartenze (ma anche nel thrash metal degli Slayer o nei Mercyful Fate, per dire), guadagnando diversi estimatori tra quelli che poi apriranno le danze della seconda wave del black metal: siano essi Euronymous, Fenriz o Silenoz, il nucleo primordiale dei Samael riceverà lodi e fungerà da ispirazione per molti act a venire.
Ma veniamo al disco: rozzo, primitivo, pregno di una rabbia ferina, si apre con l’oscura effettistica di “Sleep Of Death”, trasformandosi velocemente in una strofa soppalcata da un death metal basico (sebbene il modo di cantare sia a tutti gli effetti di natura black) e violento, la cui costruzione è semplice e immediatamente irresistibile, evidenziando un gioco di rallentamenti che permeerà il disco (anche in maniera più marcata). La title-track parte marziale e si prende il suo tempo, rallentando non poco salvo poi accelerare brevemente con dei richiami tipicamente death, e sciorinando un giro di chitarra dritto ed evocativo sotto i lamenti strazianti di Vorph. Il testo è una vera e propria invocazione al maligno, e le atmosfere luciferine marchiano a fuoco tutto il lavoro. Prende il suo spazio “Knowledge Of The Ancient Kingdom”, la cui apertura è decisamente debitrice di un heavy metal classico, sorretta da un altro incedere piuttosto rallentato, fino all’iconica “Morbid Metal”: un brano che per molti versi può suonare antesignano di un certo black metal, dal riffing black/thrash di bathoryana memoria in apertura agli stop-and-go che quasi ricordano cosa gente come gli Immortal sarà pronta a fare da lì a breve. Un brano essenziale e fortemente espressivo, con dei rallentamenti ignoranti e gustosissimi da ‘ABC’ del metal estremo.
La breve strumentale “Rite Of Cthulhu” chiude il lato A con un paio di riff ancora molto semplici, per poi aprire il secondo lato con “The Black Face”, altro brano incentrato sulla costruzione di atmosfere negative su basi questa volta più veloci, divenendo un episodio prettamente black metal tutto da gustare. “Into The Pentagram” torna a fermare il respiro con un tempo dilatato e pesante, la cui apertura pestilenziale introduce una canzone lunga quasi sette minuti, mostrando forse un po’ il fianco nella gestione della durata, tendendo a ripetersi un po’ in sé stessa ed evidenziando più di altre tracce le doti tecniche ancora limitate del trio. L’aria sulfurea che sprigiona, tuttavia, è impagabile. Ancora più essenziale la doppietta seguente: i due minuti e mezzo di “Messenger Of The Light” sgambettano su accordi quadrati e lunghi senza lasciare troppo di sé, sfociando poi in “Last Benediction”, dove chitarre e batteria si fermano per un malsano intermezzo di fosche tastiere fungente da trampolino di lancio per l’ultimo pezzo del lotto, “The Dark”, anch’esso strumentale, summa di tutto quanto abbiamo ascoltato finora e la cui partenza fulminante ci ricorda ancora una volta un misto di Bathory e Celtic Frost, con l’aggiunta di qualcosa che ritroveremo in futuro nei Darkthrone, e dove la componente heavy metal non può non risaltare alle orecchie dell’ascoltatore esperto. Un brano sicuramente più vario rispetto ad altri sentiti precedentemente, e che riesce a farsi perdonare qualche passaggio un po’ ingenuo, fino a chiudere sulle note di un macabro carillon.
Insomma, “Worship Him”, dedicato al defunto padre di Vorphalac e Xytraguptor e primo disco pubblicato dalla Osmose Productions, è un album che soffre di qualche lieve scivolata nella scrittura, ma che rappresenta l’inizio di una triade di ineffabile ferocia. I Samael cambieranno poi pelle senza snaturarsi, abbandoneranno le sonorità di questo disco andando ad esplorarne (con successo) altre, ma il lascito dei loro primi passi resterà negli annali della costruzione della scena black metal tutta. Album da possedere assolutamente, e sebbene – oggettivamente – ci sentiamo restii ad usare la parola capolavoro a cuor leggero, il nostro cuore va in quella direzione.