7.0
- Band: SANCTUARY
- Durata: 00:49:45
- Disponibile dal: 06/10/2014
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Universal
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C’era una volta un gruppo heavy metal terribilmente avanti, irrequieto, incapace di fermarsi e proteso incessantemente verso nuovi sviluppi. C’era una volta un genio delle sei corde, un portentoso scrutatore del meglio del metal americano prodotto fino a quel momento, in grado di riassumere nel suo stile Jon Drenning dei Crimson Glory, Chris De Garmo dei Queensrÿche, Larry Barragan degli Helstar, Jim Matheos dei Fates Warning. Questo axeman non si fermava, rapiva l’affilatezza ghigliottinante del techno thrash, la coniugava con un’ombrosità che qualche anno dopo si sarebbe chiamata gothic metal e vi dava una spruzzata di epic metal, quel tanto che bastava per ottenere orditi fuori dal comune. Il suo nome era Lenny Rutledge e a fare comunella con lui c’era un ragazzo dai lunghissimi capelli biondi, le occhiaie di chi non conosce il sonno da secoli, un falsetto aggressivo, una modulazione delle corde vocali a spettro amplissimo; un trasformista capace di interpretare cento personaggi a canzone, un cantante che univa all’inesorabilità dello screamer le carezze di chi sa maneggiare le emozioni con la maestria e il tatto dei poeti più sensibili. Quel ragazzo era Warrel Dane, e con Rutledge formava una coppia creativa dalla fertilità pressoché infinita, fermatasi purtroppo dopo il secondo album “Into The Mirror Black”. La reunion a sorpresa del 2010 ha riportato l’attenzione su una band influente ma spentasi prima di poter raccogliere i frutti dell’abbondante semina, di cui hanno goduto nel frattempo gli ancora più stupefacenti Nevermore. Spazziamo via immediatamente le speranze di un ritorno ai fasti dei primi due lavori targati Sanctuary: sono irrimediabilmente trascorsi, fatevene una ragione. Pensiamo che la lontananza dalle scene di Rutledge, il principale songwriter, abbia portato il chitarrista medesimo a una certa incertezza sulle coordinate da seguire per i nuovi brani; per non tergiversare troppo, si è così deciso di seguire abbastanza pedissequamente i disegni del membro più carismatico e celebrato, ovvero il buon Dane. A parole potranno dire quello che vogliono, ma è evidente che le redini del songwriting le tenga saldamente in mano il simpatico frontman; le somiglianze, a livello di suoni, strutture, arrangiamenti, sono con “Praises To The War Machine”, la prima opera solista dello stesso Warrel, e con i Nevermore di “The Obsidian Conspirancy”. I chitarroni compressi, marchio di fabbrica delle produzioni nevermoriane a cura di Andy Sneap, sostituiscono le cavalcate colme di sfumature dei primi lavori, connotandosi nell’incedere come una versione più umana delle maestose opere ingegneristiche di Jeff Loomis, assolutamente inarrivabile per le sei corde all’opera nei Sanctuary. Sul cantato di Dane, non stentiamo a credere che il grosso dei fan, pur sapendo delle sue difficoltà a raggiungere certe note, e soprattutto a tenerle, sognasse un ritorno alle linee fracassa-pentagramma della gioventù, magari grazie all’aiuto (abbondante) dei moderni marchingegni attualmente in uso negli studi di registrazione. Niente di tutto ciò. La prova è buona, o meglio, sarebbe buona, peccato che poi uno si vada a risentire tutto quello che ha cantato il nostro eroe in passato – cantante preferito di chi scrive, tanto per chiarire – e debba arrendersi all’idea che quando partivano certi acuti striduli non ce n’era per nessuno, mentre adesso si debba tirare il freno a mano alle ritmiche per consentire di far uscire la voce morbida e pulita. Ecco, questi alleggerimenti continui sui refrain, diventati un po’ telefonati già nella fase finale della carriera dei Nevermore, introdotti da bridge anche in questo caso prevedibili per un ascoltatore minimamente esperto, potrebbero anche passare sotto silenzio se i cinque arrivassero oggi agli esordi: peccato che avendoci offerto in passato materiale che, fossimo in ambito culinario, avrebbe meritato le tre stelle Michelin fisse, oggi si faccia fatica ad accettare pietanze degne di un’ottima, onestissima, trattoria. Questo per dire, arrivando infine ad un sunto dei concetti espressi, che “The Year The Sun Died” non è affatto un brutto disco, ma sconta un passato ingombrante, sia dei Sanctuary stessi che dei Nevermore, ineludibile se si vuole dare una disamina onesta di quanto offertoci dai Sanctuary 2.0. Alcuni estratti sono praticamente b-side del già menzionato “The Obsidian Conspirancy”, altre, una volta toltasi dalla testa l’idea che in passato questi signori hanno creato quisquilie come “Dying For My Sins”, “Battle Angels”, “Eden Lies Obscured” – vi assicuriamo che non è facile – potranno darvi qualche antica emozione. Seppur inchiodati ad andamenti rocciosi e non esattamente fantasiosi nello sviluppo, brani come “Question Existence Fading” e “Frozen” fomentano un cocktail di umori grigiastri e sofisticati per nulla disprezzabile. Le tenebre velate di malinconia sono state il terreno di caccia prediletto di Warrel in tutta la sua vita artistica, e non ci stupiamo quindi nel trovare nella title-track, foschissima, bagliori di una classe cristallina ora un po’ appannata. “The World Is Wired”, cercando di uscire dal canovaccio consolidato, fa intravedere in piccola parte quella smania di cambiare il mondo che traspariva chiaramente dai solchi di “Refuge Denied” e “Into The Mirror Black”, e acquista slancio e spessore strada facendo. Un po’ come tutto il disco, perché quando ci si allontana dalle aspettative originarie, probabilmente troppo elevate e inesaudibili, allora si riesce a trovare il bicchiere mezzo pieno che all’inizio proprio non si riusciva a percepire. Un dignitoso come-back, se non gli si chiede la luna.