8.0
- Band: SARCOPHAGUM
- Durata: 00:34:14
- Disponibile dal: 06/12/2024
- Etichetta:
- Nuclear Winter Records
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Periodo intenso per il bassista Adam Martin e il chitarrista Matt Hillman. A quindici giorni di distanza dall’ottimo EP dei Golgothan Remains (“Bringer of Light, Matriarch of Death”, edito da Dark Descent), i musicisti australiani si ripresentano infatti sul mercato con il debut album dei Sarcophagum, progetto completato dal batterista Robin Stone e dal cantante Chris (ex frontman degli stessi Golgothan Remains), e dedito all’esplorazione di oscuri reami sulle ali di un death metal avvolgente, stratificato e dalla forte vena cinematografica.
Musica che di questi tempi obbliga a scomodare paragoni importanti e sempre più celebrati nell’underground contemporaneo, ma che il quartetto – dopo il convincente mini “Conduits to the Underworld” del 2022 – dimostra di saper maneggiare con quella disinvoltura tipica di chi non deve sforzarsi di suonare in una certa maniera, a riprova di un talento pressoché innato nell’imbastitura di trame narrative e ‘viaggianti’, qui lasciate convogliare in una tracklist che, a poco a poco, sembra trasformarsi in una corriera intenta a fare la spola fra il cosmo e le viscere della Terra.
Un suono torvo che si dipana da una base ritmica precisa e penetrante e da un guitar work spigoloso e lisergico, in cui la componente atmosferica è impiegata sia come collante, sia come trampolino di lancio per ulteriori esplorazioni sonore, con l’ovvia influenza degli Ulcerate – specie quelli degli ultimi lavori – a riecheggiare in ognuno dei quattro episodi della raccolta.
Questi ultimi, più che seguire una forma canzone, preferiscono snodarsi in modo libero e flessibile, facendosi guidare da una sorta di eco viscerale che dà anzitutto risalto all’aspetto emotivo e melodico della proposta, piuttosto che rimarcare l’aggressività insita nel genere, in un flusso in grado di farsi largo nella psiche richiamando – a tratti – le inesorabili avanzate di certo black metal polacco.
Il risultato è un lavoro dal taglio denso e subliminale, che prende le distanze da ciò che è ovvio per lanciarsi in una costruzione ambiziosa ma mai gratuitamente eccentrica, e nella quale armonie e dissonanze, pieni e vuoti, convivono tenendo sempre a mente i concetti di riff e musicalità, esaltati da una produzione squisitamente calda e organica a cura di Greg Chandler (Adorior, Cruciamentum, Grave Miasma).
Un album, questo “The Grand Arc of Madness”, che coloro che stravedono per gli autori del recente “Cutting the Throat of God”, così come chi ha memoria dello splendido “Nadir” dei connazionali Beyond Terror Beyond Grace (RIP), si ritroverà presto a consumare, con i quindici minuti della title-track a sublimare una scrittura decisamente matura e a fuoco nel suo vagabondaggio tra le sfere della luce e del buio. Esperienza da provare.