7.5
- Band: SARKE
- Durata: 00:34:59
- Disponibile dal: 13/10/2017
- Etichetta:
- Indie Recordings
- Distributore: Audioglobe
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Grezzume orgoglioso e ascesa dello spirito non sono per forza due concetti incapaci di convivere. I Sarke lo sanno bene e hanno ampliato notevolmente il pantheon di suoni disponibili da un disco all’altro, arrivando nel precedente “Bogefod” a un apprezzabile grado di sperimentazione, così da conciliare black/thrash ruvidamente rustico e arie enfatiche, devote alla tradizione del folclore nordico e avvinte da una gentilezza d’animo insospettabile. Il discorso prosegue in “Viige Urh”, che intreccia abilmente spirito metal primordiale e sensazioni più rilassate, attingendo in questo caso, principalmente, a un lavoro di tastiere chiaramente debitore del progressive settantiano. Il grasso ruggito di Nocturno Culto rimane il tratto fieramente ‘true’ della formazione, mentre già le chitarre solo in parte rispondono al richiamo dell’old-school chiuso su se stesso. Se nella titletrack in apertura prediligono un ruminare contundente, promuovente i bassi istinti in un formato asciutto e pragmatico, già nella seconda traccia “Dagger Entombed” succede qualcosa di parzialmente inaspettato. Tastiere operistiche annunciano un brano di opulenta epicità, che si sottrae in parte a bisogni distruttivi, per varcare a passo cadenzato le porte del Valhalla. Siamo dalle parti dei Bathory di “Blood Fire Death”, in transizione dal tranciante nichilismo degli esordi a un sentire mistico impossibile da ignorare. Se quindi, sugli schemi tradizionali, il riffing veleggia confortante nei tossici mari solcati da primi Venom e Celtic Frost, sono diffuse le concessioni ad aperture più ragionate, mentre in parallelo le tastiere si liquefano in parvenze cerimoniali. Lo sformato di power metal eroico e thrash assaggiato in “Age Of Sail”, dove nel mezzo compare una pausa mistico-forestale di notevole impatto emotivo, evidenza un’ispirazione poliedrica, che tenta di tenere assieme le sue ambivalenze e di dare a ogni lato del proprio sentire lo spazio che merita. Il pianoforte di “Upir” si innesta su tempi irregolari e una serie di piccoli ‘traumi’ nella struttura e negli arrangiamenti: il pezzo finisce per essere presto stravolto da chitarre hard rock e dalle coloriture accese dei sintetizzatori, la batteria si esprime in stacchi bruschi e irregolari, dando un ritmo spezzettato alla coinvolgente narrazione. Come in “Bogefod”, una traccia (“Jutul”) è incentrata su un duetto modello “La Bella e La Bestia”; una squillante voce femminile dialoga fascinosa con Nocturno Culto, il contrasto che ne deriva risuona splendido, una mediazione fra doom angelico e nera feralità che potrebbe sembrare una versione più dura del materiale di Myrkur. È ancora un epos millenario e la percezione di essere di fronte a storie tramandate nei secoli a promanare da “Punishment To Confessions” ed “Evolution And Fate”, dove le chitarre si sgranano solenni, solo in parte calmierate negli ardori dalla freddezza dei synth. L’errare fra mitologia, pathos e barbarie, ci viene complessivamente offerto nel risicato minutaggio di trentacinque minuti, altra testimonianza dell’approccio vecchia maniera della band, giunta probabilmente all’apice della sua discografia con “Viige Urh”.