7.5
- Band: SATORI JUNK
- Durata: 01:00:01
- Disponibile dal: 10/05/2018
- Etichetta:
- Endless Winter
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Il quartetto stoner/doom milanese torna tra noi con il secondo full-length, che conferma quanto di buono sentito nell’omonimo esordio e offre anche parecchi spunti di interesse in più. Metabolizzato ormai da tempo l’ingresso in formazione di Max, il nuovo batterista già ben rodato dalle numerose esibizioni live della band, e rinforzato sempre più il doppio ruolo di cantante e ‘maestro di effetti’ di Luke, i Satori Junk trovano con “The Golden Dwarf” la piena emancipazione dall’onorevole ma abusata posizione di cloni degli Electric Wizard; spaziando – è il caso di dirlo – verso sonorità seventies robuste e un approccio da colonna sonora per film mai scritti decisamente apprezzabile. Gli stratificati riff sciorinati dal chitarrista Chris avvolgono in atmosfere fumose e trasognate, che passano dall’evidente passione per la psichedelia d’antan al fuzz spaziale (“All Gods Die”), strizzando anche l’occhio agli eterni maestri Black Sabbath, senza arrivare a imitazioni pedisseque; in “Cosmic Prison”, per esempio, dove la voce effettata riporta però al modello di certo “nuovo” doom inglese, o in certi effetti sonori che facevano capolino su “Vol.IV”: come all’inizio e al termine della (relativamente) breve ma conturbante “Blood Red Shine”, un vero e proprio duello tra gli strumenti su cui primeggia il basso di Lorenzo, o nella sezione centrale della maestosa suite “Death Dog” (peraltro collegata con l’altrettanto lunga titletrack a seguire), perfetto riassunto del loro sound. Che non ha forse l’originalità assoluta dalla sua, ma è mirabile nella sintesi delle fonti di i(n)spirazione. La menzione finale è per il ruolo rilevante del sintetizzatore e del theremin, che come detto trovano sempre più peso; assieme all’evidente gusto per le sonorità space-rock, anche il fantasma di Ray Manzarek aleggia spesso sulle tracce, e non a caso chiude l’album una spettrale e stravolta restituzione di “Light My Fire” dei The Doors: magari abusata, ma meritevole in questa riscrittura che pare l’incontro tra i primi Ghost (almeno per la stralunata linea di synth) e il grasso cosmico dello stoner più drogato, con un valore aggiunto nell’assenza di inutili tentativi di imitare l’iconica voce di Morrison. La via italiana al doom si conferma insomma vivace e di qualità, e i Satori Junk sono ormai più di una semplice promessa.