8.5
- Band: SATURNUS
- Durata: 01:07:47
- Disponibile dal: 16/01/1997
- Etichetta:
- Euphonious Records
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Se c’è un gruppo che più di molti altri ha scavato un solco emozionale nelle cupe terre del doom metal più funereo, quello risponde al nome di Saturnus.
La formazione danese ha sempre infuso nelle tetre asperità rallentate del genere una malinconia dolente, venata di trepidazione e disperata dolcezza: nell’esordio, datato 1997, “Paradise Belongs to You”, riescono infatti ad unire insieme la magniloquente compostezza degli Skepticism ad uno spleen assolutamente, deliziosamente britannico – quello nato dalle dolenti note di My Dying Bride, Anathema e Paradise Lost, che però con “One Second”, uscito sempre nel 1997, viravano dalla plumbea radiofonia di “Draconian Times” verso scenari più vicini all’elettronica – adornandolo di una pennellata dai colori di neve, montagne immote e boschi fermi nel tempo (l’intermezzo “As We Dance the Paths of Fire and Solace” è molto evocativo in tal senso), invero più vicina nelle intenzioni a formazioni come Borknagar, che pure nello stesso anno rilasciavano un caposaldo della propria carriera come “The Olden Domain”.
I rumori silvani che aprono la traccia eponima di “Paradise Belongs to You” (e chiudono con “Lament for This Treacherous World” e l’emblematico silenzio finale), mescolati con effetti di tastiere atmosferiche in quel modo unico e novantiano del termine e una chitarra perennemente carica d’emozione lungo tutto il lavoro, sono solo il primo affondo dell’ora abbondante di musica che attende l’ascoltatore: una stoccata gentile, eppure precisa e acuminata con i riff di chitarra che arrivano dritti al cuore, prima che la voce di Thomas A.G. Jensen ora sommessa e sussurrante, ora profondissima e gorgogliante – rimasta uguale negli anni, per fortuna nostra – dia il colpo di grazia.
Neanche il tempo di vacillare che arriva l’altro pezzo da novanta a tagliarci le gambe: “Christ Goodbye” è diventato con gli anni un pilastro nelle scalette live dei Saturnus, e basta ascoltare il riff principale, adornato da arpeggi bassi – a cura del solo Kim Larsen, in questo caso – e dita grevi sui tasti di pianoforte per capire perchè. La canzone riassume bene uno dei punti di forza dell’album, che non punta tanto sulla ricerca di atmosfere catacombali e sudari impregnati di lutto, quanto sulla più sincera e cristallina manifestazione di emozioni dolceamare (“I Love Thee”), lasciando trasparire ciascuna sensazione come sotto una pelle diafana, senza vergognarsi di rendere evidenti vulnerabilità, debolezze, frustrazione, disperazione o sognante, boschiva malinconia, sia che si scolpiscano passaggi quadrati e cadenzati, inflessibili nel battere con doppia cassa e corde di basso nello stesso punto delle vostre orecchie fino a farle dolere, come nella pesantissima “The Underworld”, uno dei pezzi più ‘canonici’ e ascrivibili al genere doom, sia che costruiscano atmosfere eteree e quasi siderali (torniamo a porre l’accento sull’utilizzo delle tastiere di Anders Ro Nielsen), arrivando a fare breccia nei cuori più duri con la struggente, acustica “The Fall of Nakkiel (Nakkiel Has Fallen)”, che oggi suona forse un po’ rètro per sonorità e soluzioni vocali femminili, ma crediamo non abbia perso neanche un briciolo della propria, un po’ ‘rudimentale’ bellezza.
Il disco intero splende come una gemma grezza, ispirato nella costruzione di ciascun brano, dalla corsa concitata di “Astral Dawn” e nell’intreccio complessivo di stacchi funeral doom con fraseggi dilanianti e squarci di sogni sospesi ad occhi aperti, e forse proprio in questo sta la propria bellezza: nell’affacciarsi sul mondo senza nascondersi, “indossando il cuore sulla manica”, per usare un’azzeccata espressione inglese, catturando sia chi aveva consumato “Turn Loose The Swans” sia coloro che erano alla ricerca di quei confini sbiaditi tra doom, melodie e un ‘altro’ indefinito, che in formazioni come questa, ma anche nelle allora neonate Novembers Doom e October Tide, cominciava ad acquisire contorni più chiari, sebbene sempre stemperati da una patina onirica.
“Paradise Belongs to You” è diventato e rimane un piccolo classico per gli appassionati del genere, e sebbene nel corso della loro carriera, oramai lunga oltre venticinque anni, la loro produzione, a dir poco centellinata, non sia sempre esageratamente splendente come in questo caso o l”ultimo’ (si fa per dire, essendo di undici anni fa) “Saturn In Ascension”, tra i loro dischi il preferito di chi scrive, i Saturnus hanno tracciato con questo disco una via personale, delicata eppure solida, capace di ispirare altre formazioni a continuare il percorso con le proprie gambe (ci arrischiamo a dire che gli Swallow The Sun non suonerebbero come suonano se non ci fossero stati i danesi ad aprire la via, insieme ad altri già citati poc’anzi) e illuminandone gli sviluppi futuri con quella luce, gelida eppure brillante, che illumina l’innevata copertina.