8.5
- Band: SATYRICON
- Durata: 00:43:27
- Disponibile dal: 23/10/1993
- Etichetta:
- Moonfog
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Oslo, Norvegia, primavera 1993. Sigurd Wongraven ha diciassette anni, ha mollato la scuola e da qualche tempo ha aperto Moonfog Productions, un mailorder con ambizioni da etichetta discografica. È un adolescente pieno di aspirazioni e, a detta di qualcuno nella scena, anche di sé. Canta da un anno e mezzo in una band che si chiama Satyricon, come il famoso romanzo comico di Caio Petronio Arbitro, e ha significativamente adottato il nome d’arte di “Satyr”. Degli altri che all’inizio suonavano con lui non ne è rimasto in formazione neanche uno (il batterista ha trovato la ragazza, il bassista si è arruolato nei caschi blu e il chitarrista è entrato in un altro gruppo, tali Ulver), ma Sigurd “Satyr” Wongraven ha deciso di proseguire da solo. Oltre a lui, nei Satyricon, è rimasto il nuovo batterista, che ha inciso la loro demo appena uscita. Si chiama Kjetil-Vidar Haraldstad ed è un ventenne estremamente introverso. Suona la batteria senza velleità, un po’ perché gli piace il black metal e un po’ per sfogarsi. A dirla tutta, non ha appeso le bacchette al chiodo solo perché lo hanno convinto a restare nel gruppo. Sta ancora affinando il suo stile, ma sulle pelli è viscerale. Anche lui si è dato uno stage-name: “Frost”.
Fuori Oslo, estate 1993. Kjetil-Vidar “Frost” Haraldstad raggiunge Satyr in una casetta isolata, dove è stato allestito uno studio di registrazione semi-professionale. Lo chiamano Ancient Spectre Ruins. Satyr vive da quelle parti, in un’ex fattoria. Dicono che il posto sia infestato e Satyr giura di aver sentito strani rumori. In quella specie di baita, i Satyricon registrano il loro primo full length, che si chiamerà “Dark Medieval Times”. È un titolo programmatico, perché quello che Satyr ha in mente di fare è ‘medieval black metal’: musica estrema come ne sta germogliando tanta in Nord Europa, ma con una vena specificamente ispirata alle atmosfere e alle melodie di quell’epoca storica, o meglio a come ce la fanno immaginare i film e i romanzi. Oscura, magica, misteriosa, crudele. Un black metal innervato di folk, ma anche di soluzioni che guardano al prog, arricchito da suoni ambientali e tante tastiere per sopperire ai tutti quegli strumenti che i due giovanissimi musicisti non possono procurarsi. C’è parecchio da incidere, ma le chitarre sono in parte già state registrate dal chitarrista poi passato agli Ulver, Håvard “Lemarchand” Jørgensen. Per essere un debut album è piuttosto ambizioso, ma l’ambizione è proprio l’ultima cosa che manca a Satyr.
Di nuovo Oslo, ottobre 1993. “Dark Medieval Times” è pronto. Ha un artwork che sembra fatto da un ragazzino con una buona mano durante una lezione particolarmente noiosa. Da un’improbabile altura, in mezzo a un altrettanto improbabile sentiero, un cavaliere dall’aria spettrale brandisce un’ascia in sella a un destriero impennato. Sullo sfondo, un castello squadrato, sproporzionato, sul quale aleggia un sinistro volo di corvi. In alto campeggia il logo della band, creato da Frost. A quella copertina, Satyr avrebbe preferito un’illustrazione del pittore norvegese Theodor Kittelsen, “Pesta Kommer” (“La peste sta arrivando”): verrà accontentato nel 2021, per il remaster di quello stesso album. Come la sua cover art, anche “Dark Medieval Times” è un po’ acerbo. Ci sono alcune sgrammaticature e incongruenze tipiche di quegli studenti dotati che vogliono scrivere sul compito tutto, ma proprio tutto quello che sanno e che pensano. Eppure, in quel compito si legge tutto un mondo. Un mondo di foreste innevate, creste rocciose, crepacci e alberi neri e contorti come quelli dei dipinti di Friedrich. Un mondo popolato di creature tenebrose, vampiresche, uscite dal Medioevo fantastico delle leggende e delle fiabe. Fin dai primi, concitati minuti di “Walk The Path Of Sorrow” si ha una percezione quasi visiva degli scenari che l’immaginazione scatenata di tre talentuosi ragazzini (o poco più) è riuscita a mettere in musica: un intro che sembra un po’ la colonna sonora di un horror d’altri tempi deflagra in una prima sequenza gelida e ferocissima, sostenuta da un blast beat ossessivo e da un giro di tastiera cupo e atmosferico; poi tutto si sospende in una bolla acustica; poi, ancora, si riparte a ritmi serrati e tastiere cinematografiche. Il brano è un coacervo di idee e cambi lungo oltre otto minuti, che però conserva una sua ammaliante coerenza. La stessa fervida inventiva si ritrova nella title-track, probabilmente il momento più visionario di tutto l’album (e forse uno degli exploit più insoliti di tutta quella pazzesca stagione musicale). Riff sferzanti e accenni melodici si susseguono fino a incanalarsi in una sorta di cupa marcia, che in modo del tutto sorprendente – come se si fosse voltata la pagina di un libro – cambia in una digressione che rasenta in un colpo solo progressive, new age e folk. Uno scorcio inaspettato in cui chitarre, tastiere e flauto giocano al passo di una danza anticheggiante. Macabra, invece, è la danza delle ombre di “Skyggendans”, che sua volta sfocia in un intermezzo strumentale, “Min hyllest til vinterland”, dal sapore quasi romantico. Soffia il vento, e ci si addentra tra le fronde dei pini sulle note di “Into The Might Forest”. Si intravedono, qui, alcuni degli spunti che poi i Satyricon svilupperanno nelle loro incarnazioni successive, quando si daranno a sonorità più black ‘n’ roll nei primi Duemila. “The Dark Castle In The Deep Forest” è una pregevole commistione di synth nebbiosi e melodia, che sottolinea ancora una volta le ispirazioni medievaleggianti dell’album con un aristocratico giro di chitarra. Infine, l’esplosiva “Taakeslottet”, ennesima carrellata di chitarre glaciali e suggestive parentesi atmosferiche. Nel complesso, “Dark Medieval Times” è un disco stratificato, denso, se vogliamo anche piuttosto impegnativo da ascoltare, quasi arrogante se pensiamo a quanto in alto mira. Ma è un’arroganza guascona, perché “Dark Medieval Times” è anche un disco imprevedibile, spiazzante nel senso più positivo del termine, che ad ogni ascolto si rinnova e rinnova la sua fortissima carica evocativa. Viene accolto bene, ma finisce un po’ travolto da quell’inesorabile 1994 in cui escono uno dopo l’altro tanti capolavori, forse più incisivi ed influenti. E in una certa misura, finisce travolto da sé stesso, da quell’ispirazione dirompente che in tempi brevissimi si riverserà nel suo successore.
Oslo, Norvegia, estate 1994. Satyr e Frost sono di nuovo in studio. Con loro c’è Tomas Thormodsæter Haugen, detto Samoth, che suona negli Emperor e che di lì a poco finirà in prigione per il rogo della chiesa di Skjold perpetrato insieme a Varg Vikernes. Stanno incidendo il secondo full length dei Satyricon, che sviluppa i temi e le soluzioni di “Dark Medieval Times” con una maggiore consapevolezza dei propri mezzi. La maturità e la capacità di consolidamento della propria visione acquisite in pochi mesi dalla band sono impressionanti. Il nuovo disco si chiamerà “The Shadowthrone” e sarà sia un compimento, che un complemento del suo predecessore. Sarà anche il trampolino per l’album della consacrazione dei Satyricon, “Nemesis Divina”. Ma questa è un’altra storia.