6.5
- Band: SATYRICON
- Durata: 00:43:00
- Disponibile dal: 22/09/2017
- Etichetta:
- Napalm Records
- Distributore: Audioglobe
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Cosa diavolo è successo ai Satyricon? Potremmo riassumere in questa domanda tutto ciò che pensiamo di “Deep Calleht Upon Deep” e, più in generale, dell’ultimo decennio di attività discografica di quella che fu una band visionaria. In barba alle roboanti promesse rivoluzionarie con cui è stato presentato a pubblico e stampa, il nuovo parto della premiata ditta Wongraven&Haraldstad risulta infatti poco meno scialbo dei suoi predecessori – il prescindibile “The Age Of Nero” e il (vorremmo) dimenticabile “Satyricon”. Al grido di “cambiamento o morte!”, lo scaltro Satyr pare aver rispolverato dei riff avanzati dalle session dei due album precedenti, averli assemblati cercando di dar loro un taglio vagamente prog, averli registrati in uno studio attrezzato per suonare come lo scantinato di casa vostra e infine tentato, impacchettando il tutto in uno splendido disegno di Edward Munch, di vendere “Deep Calleth Upon Deep” come un disco di rottura definitiva col passato. Certo, in tutta onestà non si può negare che qualche sprazzo di originalità e delle parziali intenzioni di rottura ci siano: produzione snobisticamente brutta; un appeal che, senza scostarsi troppo dalle ultime evoluzioni del più recente sound dei Satyricon, strizza l’occhio a qualche nuovo trend; la vena black sempre più riveduta e corretta. Tuttavia, la direzione musicale che il principe delle tenebre convertito all’enologia intendeva prendere con questo strano miscuglio di riff piatti e rullanti di cartone in salsa progressive resta un po’ sfuggente. Dito alla tracklist, “To Your Brethren In The Dark”è una ballata nera piuttosto mesta, la title track che mischia qualche buona idea a trovate in bilico tra il banale e il discutibile, l’inserto di sassofono (ebbene sì, lo hanno fatto anche loro) in “Dissonant” non è di certo tra i migliori che abbiamo sentito ultimamente. Se però non ci fosse del salvabile non ci spiegheremmo la sufficienza. Cosa salviamo, quindi? L’opener “Midnight Serpent”, “The Ghost Of Rome”, il savoir-faire di Satyr che emerge anche quando scrive brani riusciti a metà, il sapore intimista dell’album, l’intenzione (buona) di fare un disco black contemporaneo e di evitare impietosi ritorni ad un passato ormai irreplicabile, fregandosene amabilmente di cosa pensino i fan. Perché, in fondo, l’indefessa devozione dei Satyricon al ‘francamente, me ne infischio’ e la persistenza della loro identità finanche nel cambiamento ci sono sempre piaciute parecchio. Anche se il confine tra l’indipendenza artistica e l’impigrirsi sugli allori, nel loro caso, sembra farsi più nebuloso ad ogni album che passa.