9.0
- Band: SATYRICON
- Durata: 00:49:01
- Disponibile dal: 12/09/1994
- Etichetta:
- Moonfog
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All’interno del black metal, quello dei Satyricon è uno dei nomi più divisivi per ragioni legate all’attitudine ‘imprenditoriale’ del suo mastermind Sigurd Wongraven, in arte Satyr, e alle scelte stilistico-commerciali che hanno portato il duo norvegese tra i big della cosiddetta musica estrema mainstream, al fianco di gente come Behemoth, Dimmu Borgir e Cradle Of Filth. Satyr aveva deciso di portarsi fuori dall’universo del ‘medieval black metal’ da lui stesso creato già sul finire del secolo scorso, quando con il mini “Intermezzo II” e il full “Rebel Extravaganza”, che seguì a stretto giro, scioccò fan e critica facendo piazza pulita dell’immaginario tradizionale della band: via il face painting, i mantelli e le borchie; in copertina si presentavano Frost e un Satyr (irriconoscibile) in versione ’post-apocalittica’. La musica – com’è facile intuire – era cambiata, e di parecchio. Il black metal si sporcava di industrial e ritmiche punk’n’roll, con un’anima stradaiola decisamente lontana dall’oscura epicità del Medioevo scandinavo, della quale sono figli i prime tre nati e che di fatto costituiscono una trilogia a sé stante. A partire dal nuovo millennio la produzione artistica del gruppo è andata verso la semplificazione delle strutture e dei riff, con il progressivo abbandono delle screaming vocals e della velocità, in favore di midtempo e ballate oscure, in moltissimi casi pregevoli ma infinitamente più piatte rispetto a ciò che sono stati i Satyricon negli anni ‘90.
Ma questa è un’altra storia, e al momento non è di nostro interesse.
Torniamo al 1994, anno d’oro per la Norvegia a tinte nerissime, che vede uscire una serie di autentiche pietre miliari: i Mayhem con “De Mysteriis Dom Sathanas”, Burzum con “Hvis Lyset Tar Oss”; i Darkthrone pubblicano “Transilvanian Hunger”, gli Emperor “In The Nightside Eclipse”, i Gorgoroth “Pentagram” e per gli Enslaved vede la luce “Frost”. Si tratta di uno stato di grazia unico e assolutamente non replicabile – amara verità molto difficile da digerire – al quale i Satyricon contribuiscono con ben due album: “Dark Medieval Times”, che esce a marzo, e “The Shadowthrone”, che viene licenziato in settembre, sempre sotto l’egida Moonfog Productions, l’etichetta fondata l’anno precedente dallo stesso Satyr per promuovere la nascente scena black metal norvegese, e che farà uscire molti lavori di Darkthrone, Gehenna, Dødheimsgard, oltre ai progetti paralleli di Satyr e Fenriz (Wongraven, Storm, Neptune Towers e Isengard).
Nonostante le prime due release targate Satyricon escano a soli pochi mesi di distanza l’una dall’altra e siano evidentemente molto legate tra loro, in termini di stile di scrittura, sonorità e scelte stilistiche (‘Dark medieval times and bring forth to the domains of satyricon’ recita “Dominions Of Satyricon” ) sono comunque ravvisabili delle differenze, e per certi versi una crescita. Intendiamoci, “Dark Medieval Times” è un capolavoro, e il motivo che ci ha spinti a parlare in prima battuta del suo successore è in larga misura di natura affettiva, ma “The Shadowthrone”, che vede la partecipazione di Samoth degli Emperor alla chitarra e al basso, possiede un tiro, un’eleganza feroce e una solidità irripetibili. Ce ne accorgiamo immediatamente, con la breve dichiarazione di guerra che apre “Hvite Krists Død”, quel ‘Kampen mot Gud og hvitekrist er igang!’ che chiunque ha cercato di replicare in maniera più o meno fedele ascoltando questo disco. Incipit grandioso, “Hvite Krists Død” unisce oscura epicità, riff magnetici e tocchi ambient, con un uso delle tastiere ben dosato e perfettamente integrato con la trama delle chitarre, senza creare sovrastrutture inutilmente pompose. I cambi di tempo sono realmente imprevedibili e non appaiono mai forzati, come le fredde note di pianoforte che ci accompagnano ai cori dal sapore vichingo che chiudono un brano che da solo varrebbe l’acquisto del disco. “In The Mist By The Hills” è il pezzo più catchy e trascinante, un effetto che deriva da una sapiente reinterpretazione in chiave estrema del folk, non da artifici radiofonici studiati a tavolino. Anche perché questo è un lavoro che resta violentissimo nonostante le aperture melodiche, merito dei riff taglienti come rasoi e del drumming forsennato eppure incredibilmente vario di Frost, che non picchia solo duro e veloce, ma suona la batteria, caratteristica non da tutti. La velocità rallenta solo con “Woods To Eternity”, sei minuti solenni e ipnotici, impreziositi da un improvviso break acustico, una melodia minimale quanto incisiva che cresce fino ad introdurre un altro magistrale cambio di tempo; anche qui le tastiere di Satyr danno il meglio, risultando il collante perfetto. “Vikingland” è un manifesto di belligeranza vichinga che incorpora elementi pagan/viking (i cori, i suoni della battaglia) nel classico black metal del duo, che non a caso ri-pubblicherà, l’anno seguente, l’EP “The Forest Is My Throne” in veste di split assieme ad “Yggdrasil” degli Enslaved. Arriviamo così ad un altra perla, la lunga “Dominions Of Satyricon”: ancora una volta i norvegesi dimostrano un livello di songwriting sopraffino, muovendosi con classe ferina nelle terre infestate delle quali Satyr ci narra le sorti. “The King Of The Shadowthrone” è un altro pezzo veloce e ritmato, non scevro di influenze folk e che nasconde un cuore semi-acustico ancora una volta vincente. Chiude il lavoro una traccia di puro ambient strumentale, la bellissima “I En Svart Kiste”, esempio di epicità minimale, tanto rigorosa e glaciale nella prima metà quanto struggente e intensamente malinconica nella seconda parte. L’uso dei synth, oltre ad impreziosire il sound dei Satyricon, contribuendo alla sua unicità, troverà piena realizzazione nel progetto ambient/folk di Satyr, sotto forma dell’unico disco uscito sotto moniker Wongraven, quel “Fjelltronen” che uscirà nel 1995 diventando presto oggetto di culto.
“The Shadowthrone” è un lavoro organico, all’interno del quale ciascun brano dimostra la propria personalità. Freddo come la nebbia di dicembre che penetra fin dentro le ossa, è un disco sicuramente più difficile del suo ingombrante successore, quel “Nemesis Divina” che porterà la band di Oslo al successo definitivo (complice un brano iconico come “Mother North”). Eppure la caratura artistica di “The Shadowthrone” è superiore, un ipnotico bilanciamento tra barbarie ed oscura eleganza, tra cura del dettaglio e genuina spontaneità, con un mixaggio forse non perfetto ma dai suoni infinitamente più densi e violenti. Un disco che merita assolutamente di essere riscoperto, magari attraverso la recentissima ristampa su vinile, che gode di una ri-masterizzazione dei suoni, chiudendo benevolmente gli occhi sulla discutibile scelta di cambiare l’artwork e sostituire il vecchio logo con la versione ’ripulita’ attuale.